Vari esponenti della controcultura giovanile di sinistra vengono scelti, letteralmente, come capro espiatorio per la violenta repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Con loro viene incredibilmente accusato anche Bobby Seale, co-fondatore del movimento delle Pantere Nere, che a Chicago era stato solo per quattro ore quel giorno. Grazie alle testimonianze di un gran numero di infiltrati nella protesta, si cerca di pilotare il processo verso la condanna, ma il giudice è così di parte e propenso a bizzarre decisioni da sollevare sempre più dubbi sulla regolarità del processo.
Assunto da uno strozzino per ottenere il pagamento dei debiti dai clienti in ritardo, Kang-do si comporta come un macellaio, storpiando orribilmente le sue vittime e seminando la morte. Fino a quando non si presenta alla sua porta una donna che dice di essere la madre e si addossa la colpa di ogni suo crimine, pentita di averlo abbandonato alla nascita e lasciato crescere senza amore. Dopo averla sottoposta alle prove più terribili per accertarsi che dica la verità, Kang-do accetta finalmente la donna ma la paura di perderla lo mette, per contrappasso, nella posizione di scacco in cui ha sempre tenuto le sue vittime. La vita, la morte, il denaro. Per Kim Ki-duk c’è un termine di troppo, un intruso fatale. La pietà non è un trittico ma una figura sacra, che prevede solo due attanti. Il denaro non dovrebbe avere un posto tra questi temi, ma l’ha acquisito, ed è un errore che domanda giustizia, o meglio, un giustiziere. Non c’è dubbio che Pietà sia un film sulla sproporzione. Lo dice in un sol colpo (d’occhio) l’immagine della coppia protagonista: un ragazzo gigantesco e una piccola signora, e lo ribadisce ogni scena, ogni sfumatura. La crudeltà di Kang-do è fuori misura, così come la stupidità di alcuni debitori. Lo sono la capacità di sopportazione dell’una, l’ingenuità dell’altro, l’architettura della vendetta. Lo sono, dunque, le scelte in sede di racconto e di regia: le scene di sesso dichiaratamente eccessive, l’enfasi musicale, l’utilizzo di un’attrice, Min-soo Cho, dalla bravura fuori dell’ordinario. Eppure, non si può fare a meno di avvertire anche un eccesso di sicurezza, da parte del regista sudcoreano, uno sfoggio di sé, che qualche volta toglie forza a ciò che avviene dentro l’inquadratura, o più semplicemente le impedisce di sorprenderci. È un genere, questo, che Kim ha già cavalcato e nel quale eccelle, ma non incanta più. Se non fosse per la massiccia dose di ironia che ha calato in questo diciottesimo film, probabilmente più che in ogni altro lavoro precedente, il rischio sarebbe quello della predica morale leggermente ridondante, come lo è il kyrie eleison finale. “Signore, pietà”. Salvato dall’ironia, Kim regala allora, nonostante tutto, un film circoscritto e alto, in parte ispirato dal connazionale Park Chan-wook, ma intimo e sporco, meno lirico e più radicato nelle “passioni” di questo tempo buio.
Quarta e ultima parte della tetralogia di Aleksandr Sokurov sulla natura del potere, Faust è l’unico personaggio letterario della partita, dopo Hitler (Moloch), Lenin (Taurus) e Hiroito (Il sole), ma è anche quello contenuto in nuce in tutti gli altri, per il carattere mitico e simbolico che porta in sé. Il regista russo rilegge liberamente tanto l’opera di Goethe che quella di Mann, scegliendo l’ambientazione ottocentesca e mantenendo la lingua tedesca e l’idea tragica di fondo, per cui la condizione umana consisterebbe in un continuo errare. Sokurov inscena, dunque, questa (diabolica) perseveranza nell’errore costringendo i suoi personaggi a un procedere senza sosta, a una letterale erranza tra boschi, case, lande, ghiacciai. Il protagonista del film non si ferma un istante, tanta è la sua sete di sapere e tanta è la lontananza dalla meta. A questo movimento senza soluzione di continuità si aggiunge una forza opposta ma altrettanto intensa e inestinguibile che (co)stringe gli esseri umani presenti nell’inquadratura, obbligandoli a farsi largo l’uno sugli altri, a scavalcarsi ad ogni occasione. La gestualità è teatrale, esasperata, ma la sensazione di brulicante claustrofobia ci riporta anche alla pittura di Bosch, non a caso un artista che ha utilizzato il realismo per raccontare il male immateriale e i cui dipinti pullulano di creature dannate e sofferenti. Visivamente grandioso, il Faust di Sokurov è attraversato da un’atmosfera mortifera dalla primissima all’ultima inquadratura. Il suo dottore è una creatura infelice, non affamato di sola conoscenza ma soprattutto di cibo, di sonno, di denaro e di contatto amoroso: bisogni fisiologici e materiali che collocano inequivocabilmente l’inferno su questa terra (non c’è traccia del prologo celeste e il conto degli individui in fila per firmare il patto è in continua espansione e riproduzione). Il paradosso tragico della vita espresso nell’opera è che l’uomo può giungere al divino solo con l’intervento del demonio: per questo quando Wagner chiede al dottor Faust dove si trovi l’anima, il medico -pur avendo indagato le viscere e ogni organo umano- deve ammettere che non l’ha trovata. Il suo potere è umano e dunque limitato. Con un impiego di mezzi ingente ma anche assolutamente necessario e meritato, Sokurov allestisce uno spettacolo che appaga l’occhio, un’opera d’arte potente e affascinante che ribadisce nel mentre la validità atemporale del racconto. Uno spettacolo di quelli che non siamo più abituati a sostenere senza sforzo ma che ripaga davvero l’impegno che domanda.
In Inghilterra, nell’Ottocento, un’uxoricida ricerca il denaro del marito aiutata dall’amante, ma la coppia viene terrorizzata dallo spettro del morto. Sorpresa finale.
Versione accettabile ma un pò rumorosa. Purtroppo non ho trovato di meglio
Tom torna al paese dopo molti anni di assenza. Ha la triste sorpresa di constatare che il fratello è alcolizzato. Una banda spietata domina la comunità, ma il fratello uscirà dalla sua passività e con Tom farà piazza pulita.
Consapevole che sua figlia (Hara) sta diventando una zitella, un vedovo (Ryu) la esorta a sposarsi, ma contenta di prendersi cura di lui _ sa che sarebbe perduto senza una donna in casa _ la ragazza è riluttante. Per convincerla, il padre le comunica di essere in procinto di riprendere moglie. 3° film postbellico di Ozu che già negli anni ’30 s’era affermato come un regista di primo piano nel cinema giapponese. Opera mirabile nella sua spoglia semplicità con una parte finale di struggente commozione nel suo pudore. Come sempre in Ozu gli interpreti sono perfetti, di grande finezza nei particolari la descrizione della vita quotidiana. Sono già presenti _ suggeriti più che espressi _ i temi che saranno più evidenti nei film successivi: la disgregazione della famiglia nel Giappone postbellico; l’idea che i figli sposati, e soprattutto le figlie, si distaccano radicalmente dai genitori; la necessità per gli anziani di subordinare i propri interessi a quelli dei figli.
Nella periferia di Tokyo le giornate trascorrono indisturbate tra i pettegolezzi del vicinato, almeno fino a che si insedia una coppia di giovani hipster con una Tv. I bambini del quartiere con ogni pretesto sgattaiolano per trovarsi davanti al piccolo schermo ad assistere agli incontri di sumo. Quando la famiglia Hayashi proibisce ai propri figli di vedere la Tv, questi danno vita a uno sciopero del silenzio che genererà una serie di problemi e incomprensioni con le altre famiglie.
Shoji Sugiyama è un impiegato che lavora a Tokyo, sposato con Masako, la coppia ha perso il loro unico figlio l’anno precedente per via di una malattia.
Durante una gita con i colleghi di ufficio Shoji conosce la segretaria Kaneko con cui trascorre del tempo. Nei giorni seguenti Kaneko fa delle continue avances a Shoji che dopo una iniziale ritrosia accetta e i due intrecciano una relazione clandestina. Masako sospetta che il marito abbia un’amante ma decide di non farne parola, tuttavia è sempre più infastidita dal fatto che Shoji passi del tempo con Kaneko e questo estrania i due coniugi.
Due ragazzi diventano compagni di giochi del figlio del datore di lavoro del padre. Tra i ragazzi c’è un rapporto paritario, che però non esiste tra gli adulti. Il padre dei fanciulli deve sottostare non di rado al dispostismo del suo principale. I ragazzi assistono alle sue piccole umiliazioni e ne sono scioccati. Arrivano a disprezzare il padre. Ma perché sono piccoli. Quando diventano adulti, capiscono.
Takako e Akiko sono state abbandonate dalla madre e sono cresciute con il padre. Con lui tornano a vivere quando la prima lascia il marito alcolizzato e la seconda non riesce a proseguire la relazione con uno studente, Ken, da cui aspetta anche un figlio. Sarà proprio la ricerca di Ken, incallito giocatore d’azzardo, che porterà Akiko a incontrare una donna che sembra conoscere davvero troppo sul suo conto. Solo una madre potrebbe sapere così tante cose…
“Per me il futuro è stasera”. Tony Manero vive in una casa popolare a Brooklyn. Di giorno fa il commesso, e di sera si scatena sulla posta da ballo con gli amici. Infatuato di Stephanie, con cui fa coppia nelle gare di ballo, Tony cerca di conciliare la sua passione per le esibizioni in discoteca e l’interesse per la scostante partner. Intanto, però, la violenza della metropoli bussa alla porta, e tra pestaggi e tragici incidenti, Tony comprende che deve cambiare vita.
Ci sono due tracce audio in italiano: il doppiaggio originale e il ridoppiaggio
Oltre il fiume Nistro’ vive una comunità singolare che educa i propri figli al crimine. Onesti con i più deboli e feroci con esercito e polizia, i siberiani pregano dio e impugnano armi, predicando una violenza regolata da prescrizioni. Il crollo del Muro e del regime sovietico altera gli equilibri del loro mondo, corrotto rapidamente dall’aria dell’Ovest. Nel passaggio epocale che confronta e poi scontra la Tradizione col cambiamento nascono e crescono Kolima e Gagarin, amici per la pelle e amici nel sangue. Ispirati e armati di picca da nonno Kuzja, vengono iniziati alle rapine e alla condivisione ‘comunitaria’ della refurtiva. Perché i siberiani non rubano per arricchirsi ma per sostenere la loro piccola società, premurosa con gli anziani e coi ‘voluti da Dio’ come Xenja, giovane donna affetta da demenza. Figlia del medico locale, la ragazza è protetta da Kolima che ne è profondamente innamorato. Finito in carcere, ha sublimato quel sentimento in un tatuaggio, una tecnica di decorazione corporale che impara e affina sulla pelle dei galeotti. Diversi tatuaggi dopo, nonno Kuzja provvede alla sua scarcerazione per affidargli una missione importante, trovare l’uomo che ha abusato e picchiato la sua Xenja. Sarà l’inizio di una lunga caccia che lo costringerà ad arruolarsi nell’esercito, infrangendo codici e tradizioni. Autore cult degli anni Ottanta e Novanta, a partire dal 2000 Gabriele Salvatores si lascia alle spalle la ‘sindrome da Peter Pan’, che caratterizzava quasi tutto il suo cinema precedente, per tentare la strada più ardua del film non generazionale ma teso a raccontare l’incontro fra generazioni. Sperimentatore di nuove tecniche e nuovi possibili modelli di rappresentazione, negli anni zero infila la strada della trasposizione, traducendo con esiti oscillanti (e qualche volta discutibili) due romanzi di Niccolò Ammaniti (Io non ho paura, Come Dio Comanda), il noir di Grazia Verasani (Quo Vadis, Baby?) e la pièce teatrale di Alessandro Genovesi (Happy Family). Educazione siberiana non fa eccezione e va a ingrossare le fila degli adattamenti. Dopo una commedia felice, che recupera e ricongiunge Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio, il regista milanese adatta “Educazione siberiana” di Nicolai Lilin, autore russo che scrive in lingua italiana. Con la partecipazione di Rulli e Petraglia, Salvatores toglie al romanzo tutto quello che non asseconda la sua intuizione originale, abusando di un testo densissimo e perdendo l’alterità narrata da Lilin. Legittimo per quanto autoritario, l’intervento dei celebri sceneggiatori normalizza, meglio spersonalizza una comunità criminale siberiana radicata nella Tradizione e impattata dalla modernizzazione globale. Mischiando, scambiando, omettendo o esaltando personaggi, Rulli e Petraglia decontestualizzano i protagonisti riorganizzandoli dentro una storia altra e prossima alla ‘gioventù’ già ampiamente trattata al suo ‘meglio’ (La meglio gioventù) e al suo ‘peggio’ (Romanzo criminale). I ‘bravi ragazzi’ di Lilin finiscono per galleggiare su una superficie fragile come il ghiaccio che inframezza le sequenze, in cui si contrappongono due bad guy e due modi diversi di stare nel mondo, l’uno vorrebbe conservarlo e trasmetterlo, l’altro rubarne un pezzetto con la smania di chi vuole tutto subito. Semplificato e stravolto, Educazione siberiana si incanala verso un disegno di virtuosismi che non affondano mai, ritirandosi dal confronto con le pagine di Lilin e sclerotizzando lo sguardo su corpi privi di carne e di sangue. Personaggi mai attraversati dalle passioni e il cui destino ci risulta indifferente. Nemmeno la furia finale di Kolima, tesa a ristabilire verità e giustizia (criminale), risarcendo l’innocente, ci può emozionare. Gli attori, un cast giovanissimo e puntuale governato da un John Malkovich di ieratica grandezza, soffrono una narrazione resistente all’onore, al culto della violenza e alla formazione (criminale). La tentazione di un affresco storico-sociale della Russia attraverso la figura del criminale rimane un tentativo interessante che elude tuttavia il senso più profondo della forza e della sopraffazione, della sorte degli innocenti e dei predestinati, dell’incisione dell’ ‘io’ sui corpi raffigurati da Lilin come fossero libri. Corpi coperti di tatuaggi e arabeschi del passato che individuano le persone, le inquadrano e le rappresentano in una gerarchia criminale.
4° film, anche scritto e prodotto, dalla californiana Coppola, figlia di F. Ford che ne è produttore esecutivo. Nel famoso hotel Chateau Marmont di Hollywood, Johnny Marco, divo del cinema d’azione, passa giorni e notti tra apparizioni pubbliche, festini di alcol e droga, fortuiti rapporti sessuali, casuali giri su una Ferrari. Quando la moglie, separata, gli lascia la figlia 11enne Cleo, con lei ha un tenero rapporto quasi alla pari. Imperniata su Marco e in gran parte ambientata nell’hotel con attori poco noti, l’azione comincia e termina in un deserto. Racchiude un labirinto di solitudini, compresa quella di Marco, alienato da una sorta di adolescenza ritardata. È sempre somewhere , da qualche parte, altrove. È un film di fragilità, incertezze, sguardi, poche parole, variazioni minime, frammenti, in bilico tra ritratto di un personaggio e descrizione critica di un ambiente, che spiega la disparità delle accoglienze critiche a Venezia 2010 dove vinse un contestato Leone d’oro. Ricco di ricordi autobiografici, è “un film libero” (L. Malavasi), ma anche anemico, abilmente intessuto di luoghi comuni.
Leone d’oro alla 66ª Mostra di Venezia 2009 e 1° film israeliano a vincerlo. Scritto e diretto dall’esordiente Maoz, sulla base dei suoi ricordi di sottotenente carrista che nel giugno 1982 partecipò alla 1ª guerra nel Libano. Sul muro di una città in cui un tank israeliano penetra dopo un massiccio bombardamento aereo c’è una scritta idiota: “L’uomo non è d’acciaio, il carro armato è soltanto ferraglia”. Non sono d’acciaio i 4 uomini che vi sono chiusi. 2° film israeliano a raccontare quella guerra dopo Valzer con Bashir , si svolge, tolti 10 minuti, all’interno del carro armato, nel suo buio fetido e sporco. Radicale, senza orizzonti, il mondo esterno è visto attraverso il mirino del mitragliere Shmulik. Maoz ha detto di aver scritto il film con la pancia. Lo si vede: la sua è la memoria emotiva di un 20enne che nel 1982 uccise per la prima volta un uomo. Lo spinse a fare il film il bisogno di riuscire a perdonarsi; di comunicare quell’esperienza a livello sensoriale prima agli attori, poi agli spettatori; di fare capire che il vero nemico e carnefice è la guerra stessa che costringe chi la fa a uccidere per sopravvivere. C’è riuscito anche grazie ad Ariel Roshko (scenografie), Giora Bejach (fotografia), Alez Claude (suono), Nicolas Becker (musica).
Shangai, 1942. Studentessa appassionata di teatro e di socialismo, a Hong Kong, Wang Jiazhi, diventata la signora Mak, ricorda a Shangai gli avvenimenti che la portarono a diventare l’amante di Yi, collaborazionista degli occupanti giapponesi e capo dei servizi segreti: i resistenti comunisti, alleati al Kuomintang, volevano ucciderlo servendosi di lei. Con questo 9° film, scritto da Wang Hiu Ling e James Schamus da un racconto di Eileen Chang, ad Ang Lee toccò il suo 2° Leone d’oro a Venezia 2007. All’inizio c’è una partita di mah jong , gioco da tavolo tra i più praticati in Cina, forse la sequenza più riuscita del film di cui è il paradigma, riassumendone molti significati. Le regole del gioco ne fanno “la metafora di una società patriarcale, puritana, di stampo confuciano, che bandisce la manifestazione pubblica delle emozioni, che considera la donna un essere assai inferiore all’uomo” (M. Dalla Gassa). Il titolo originale – voglia sfrenata, prudenza – è un ossimoro, ma nel contesto culturale cinese i due termini sono conciliabili. I coniugi Yi ne sono la fedele espressione in una storia senza catarsi né resa dei conti. Wang, invece, non sa giocare e soccombe anche perché è la sola che indossa un’altra identità, come deve fare un’attrice. Le sequenze erotiche – che ne fanno il film sessualmente più spinto mai realizzato in Cina – acquistano così un’ambiguità di fondo: fin dove arriva in Wang la performance dell’attrice e dove comincia la verità dell’orgasmo in cui si sente viva? Dov’è personaggio e dove persona?
Londra, 1950. Vera Drake è una donna generosa dalle piccole mani che fa la cameriera a ore. Bada alla famiglia (marito, due figli grandi), non nega mai un aiuto o un sorriso ai vicini di casa e agli amici. Nessuno sa che da anni fa abortire gratis ragazze in difficoltà (fino al 1967 in GB l’aborto era illegale). Da una sceneggiatura da lui firmata, frutto di un lungo lavoro collettivo di prove con gli attori, M. Leigh fa un film sui tempi bui della sua infanzia che ha un preciso aggancio con l’attualità del nuovo secolo quando in Occidente sono in atto potenti pressioni per correggere o annullare leggi che permettono alle donne di decidere sul proprio corpo. Qualità evidenti: puntigliosa ricostruzione urbana d’epoca (l’angustia claustrofobica degli ambienti, sottolineata dalla verticalità delle inquadrature e dal colore monocorde, tra grigio e marrone); l’asciutta e rispettosa tenerezza verso personaggi umili e comuni; la bravura veristica degli interpreti. Ma c’è anche la costruzione drammaturgica, la parte finale è un replay della prima: nel processo la donna sgomenta è costretta a riguardare la propria vita attraverso un codice, una logica, un linguaggio che non le appartengono. Chi è Vera Drake: una ribelle? una fuorilegge? un’incosciente? Nella sua pietas Leigh non dà risposte. Le lascia ai personaggi del suo film corale. E agli spettatori. Leone d’oro a Venezia 2004 e Coppa Volpi a I. Staunton, egregia attrice teatrale, insignita anche dell’Oscar europeo.
1964, Irlanda. Giovani donne, ragazze-madri, violentate, orfane o solo troppo “vivaci”, vengono rinchiuse dai familiari in uno dei conventi Magdalene gestiti dalle sorelle della Misericordia. Le ragazze, per espiare i loro peccati, sono costrette a lavorare fino allo stremo delle forze e a subire percosse e ogni genere di violenza psicologica se non ubbidiscono agli ordini delle suore. Il film racconta la storia di quattro giovani vittime e sono, purtroppo, storie vere. Peter Mullan, dopo un film sopra le righe come Orphans, sceglie un registro molto più realistico e ci parla di ognuna di loro con lo stile di una camera a mano che rende ogni inquadratura cruda e dolorosa. Lo fa con la sensibilità e la partecipazione a un destino segnato dalle convenzioni sociali e morali che negano il rispetto, la Fede e la libertà.
A New Delhi durano quattro giorni i preparativi di un matrimonio combinato tra due ricche famiglie borghesi del Punjab. Arrivano anche dagli Stati Uniti e dall’Australia i membri del clan Verma e s’intrecciano 5 storie in una catena di tragicomici conflitti. Le torrenziali piogge monsoniche sono catartiche. Al di là della sapienza narrativa con cui, grazie alla sceneggiatura di Sabrina Dhawan, fa giostrare come in un circo 68 personaggi, il 6° film della Nair – giuocato sul conflitto tra vecchio e nuovo, tradizione e modernità, usi orientali e costumi occidentali – è un interessante referto sociologico sulla ricca borghesia indiana a cavaliere tra due secoli. Non se ne nascondono le contraddizioni e i lati in ombra. Dagli omologhi film occidentali, Altman compreso, lo distacca una pagana sensualità di segno femminile che acquista una valenza di sano laicismo. Inopinato Leone d’oro a Venezia 2001.
Due giovani ingegneri, Aaron e Abe, dipendenti di una ditta privata di informatica, realizzano con elementi presi in prestito dal laboratorio, con del palladio ricavato dalle marmitte catalitiche delle loro auto e con tubi di rame ricavati dal frigorifero di casa, un dispositivo che si rivelerà essere una macchina del tempo. Se ne renderanno conto grazie a un fungo che si svilupperà in poche ore a fronte dei 5 o 6 anni necessari.
Supponendo che la macchina venga accesa in un momento A (per esempio le 12:00) e che i crononauti vi entrino in un momento B (per esempio le 18:00), questi ultimi dovranno aspettare sei ore per uscire nuovamente nel momento A, ovvero tornando indietro nel tempo di sei ore. Il punto A, quindi, oltre a essere il momento di accensione della macchina, è per prima cosa il momento di arrivo dei viaggiatori. Con questo meccanismo ci sarà quindi un arco di tempo in cui i viaggiatori staranno aspettando di entrare nel punto B ma contemporaneamente i cosiddetti “doppi” saranno già usciti dal punto A. Per questo i due protagonisti si isolano dal mondo rifugiandosi in hotel, nel tentativo di evitare paradossi temporali.
Il primo a fare il viaggio da solo sarà Abe; in un primo “futuro alternativo” egli renderà poi partecipe anche l’amico e i due inizieranno il percorso che li condurrà quasi alla fine del film. Le cose però non andranno come previsto (uno degli effetti collaterali sarà che i due non riusciranno più a scrivere con una penna) e, nonostante l’idea di partenza fosse quella di arricchirsi in borsa, la tentazione di modificare eventi personali li porterà a conseguenze non più controllabili.
Il film è incredibilmente complicato, credo che una visione non basti per capirlo.
Il Corriere della Paura è stata una rivista antologica di fumetti pubblicata in Italia dall’Editoriale Corno negli anni settanta[1][2][3] specializzata nella pubblicazione di fumetti horror tratti dalle riviste Marvel
La rivista nacque durante il periodo di massima espansione dell’editore grazie al successo delle serie a fumetti incentrate sui supereroi della Marvel importate dagli Stati Uniti; sfruttando il sodalizio stabilito con l’editore americano, la direttrice responsabile Maria Grazia Perini propose al suo editore una rivista di genere horror dove pubblicare le storie dai toni decisamente forti per l’epoca che la Marvel aveva incominciato a pubblicare negli Stati Uniti[5]. Inizialmente la Marvel investì molto su questo genere di riviste horror, assumendo autori come Neal Adams e pubblicando serie come “lo Zombie” di Steve Gerber e Pablo Marcos, ma poi ridusse notevolmente il budget riducendo i costi rinunciando ad autori affermati e, dopo il 1975, rimase solo la serie col personaggio di Dracula.[4]
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