La vita romanzesca e romanzata di Ziegfeld, l’inventore della rivista americana. Dopo un difficile inizio giunge finalmente a Broadway, dove ottiene un successo strepitoso.
I subita li ho aggiunti traducendoli con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Basato su una pièce di successo di Noel Coward, il film racconta la saga di due famiglie inglesi, i Marryots e i Bridges, in un arco di trenta anni che va dall’inizio del secolo XX alla vigilia avvento del nazismo in Germania. I Marryots sono una famiglia benestante e altolocata, mentre i Bridges appartengono alle classi popolari. Attraverso gli occhi di Jane e Robert Marryot vediamo gli avvenimenti che hanno contraddistinto questa epoca: la guerra anglo boera, la tragedia del Titanic, la morte della regina Vittoria, la grande guerra, l’età del jazz. Grande e suntuoso affresco di una generazione corredato da un messaggio pacifista e antimilitarista. Malgrado una certa indulgenza al mélo, la regia riesce a confezionare una storia solida e toccante. Il film vinse meritatamente l’Oscar.
Secolo diciottesimo. Stanchi di sopportare le crudeltà del loro feroce capitano, i marinai del Bounty, una nave inglese, si ribellano e lo abbandonano, con i suoi fedeli, su una scialuppa in mare aperto. Il capitano, riuscito a salvarsi, parte alla ricerca degli ammutinati, riesce a trovarne alcuni e li fa condannare a morte. Essi però ottengono in extremis la grazia sovrana. Gli altri ribelli sfuggiti alla cattura si sono nel frattempo stabiliti in un’isoletta del Pacifico, che diventerà la loro nuova patria. Uno dei più grandi successi cinematografici degli anni Trenta. Superbo Charles Laughton nella parte del tremendo capitano: divenne da allora il più famoso cattivo dello schermo. Della celebre storia venne girata un’altra versione nel 1962, diretta da Lewis Milestone e interpretata da Marlon Brando e Trevor Howard.
Per raggiungere il playboy che il padre le impedisce di sposare, ricca ereditiera scappa di casa. Tutti la cercano. Sul pullman New York-Miami fa amicizia con un giornalista che, pur di assicurarsi lo scoop finale, s’impegna a non tradirla. Proseguono il viaggio, litigando, ma s’innamorano. Una storia semplice per gente semplice. Fu il primo film a vincere 5 Oscar maggiori (miglior film, regia, attore e attrice protagonisti, sceneggiatura: di Robert Riskin dal racconto Night Bus di Samuel Hopkins Adams) e il primo a usare autobus e motel come sfondo. Una perfetta miscela di umorismo e sentimento, condita di molti particolari gustosi e di piccole gag tra cui, famosa, quella dell’autostop dove lei insegna a lui quanto sia più efficace una bella gamba che un pollice. Rifatto in chiave musicale con Eve Knew Apples (1945) e con Autostop (1956)
Gente che va, gente che viene in un grande albergo di Berlino dove sembra che non succeda mai niente. Succedono, invece, molte cose, in un intreccio fitto sapientemente omogeneo per merito di William A. Drake che, con la supervisione di Irving Thalberg, ha adattato con brio un best seller (1929) della austriaca Vicki Baum. Rivisto oggi, è evidente che la buccia è umoristica ma la polpa drammatica, anzi melodrammatica. 5 i personaggi principali, i primi 5 del cast. Pur non essendo un film “della” Garbo, ma “con” la Garbo, la diva lascia il suo segno, soprattutto nel magnifico controllo del suo corpo di danzatrice. Ammirevoli i 2 Barrymore: John, falso barone e ladro-gentiluomo, sotto le righe; e Lionel, patetico travet, sopra le righe. Caso raro di un lungometraggio che vinse soltanto l’Oscar per il miglior film. Tipico prodotto della M-G-M. Lo si vede anche dal bianconero di William (Bill) Daniels e dalle scene e i costumi di Cedric Gibbons. Ritenuto per decenni un abile prodotto commerciale, il romanzo è stato rivalutato nel primo 2000 come si vede anche dalla nuova traduzione di Mario Rubino del 2010 edita da Sellerio.
Intorno al 1880 una diligenza parte con sette passeggeri da Tonto diretta a Lordsburg, nel Nuovo Messico, attraverso un territorio occupato dagli Apaches di Geronimo. Per la strada sale Ringo, ricercato per un delitto che non ha commesso. Dovrà vedersela con i fratelli Plummer, i veri responsabili del crimine di cui è accusato. Sceneggiato da Dudley Nichols sulla base del racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox (ispirato a Boule de suif di Maupassant), è forse _ almeno in Italia per due generazioni di critici e di cinefili _ il western più famoso e amato di tutti i tempi. Questo “Grand Hotel” su ruote, come fu definito sul New Yorker, si presta a letture di ogni genere, come ogni classico. Ebbe 5 nomination agli Oscar e ne vinse 2: Mitchell (attore non protagonista) e la musica, che attinge al folclore americano. Il western precedente di Ford è del 1926.
Incoronato zar nel 1547, Ivan (1530-84) promette di unire tutta la Russia, entra in conflitto con i boiardi di cui vuole limitare il potere e con la zia che avvelena la zarina. Ivan si ritira in convento. Presentato alla fine del 1944, è la prima parte di Ivan Groznyi la cui seconda parte, nota col titolo La congiura dei boiardi, fu terminata nel febbraio 1946 e condannata nello stesso anno dal Comitato centrale del Partito Comunista dell’URSS e distribuita in pubblico solo nel settembre 1958. Tornato a Mosca, Ivan entra in conflitto con l’amico Fëdor Kolitchev, diventato pope metropolita col nome di Filippo e schierato con i boiardi. Euphrosinia, zia di Ivan e madre dell’inetto Vladimir, che i boiardi vorrebbero come zar, prepara un attentato, ma Ivan sostituisce a sé stesso il giovane che così viene ucciso da un sicario inviato da sua madre. Nella 2ª parte, inseparabile dalla 1ª, Ejzenštejn inserì una lunga sequenza a colori (in Agfacolor, bottino di guerra). La 3ª parte non fu mai girata: doveva raccontare la vittoria finale di Ivan, ormai diventato il Terribile. Nella cineteca di Mosca erano conservate 2 sequenze inedite (20 minuti circa), una delle quali (L’infanzia di Ivan) doveva servire di prologo alla 1ª parte. Può essere letto a diversi livelli: storico, politico, psicologico, estetico, allegorico. Ivan è Ivan. È Stalin. È un re di Shakespeare. È un eroe di opera wagneriana. È la rievocazione _ spesso in bilico sul ridicolo perché la sua natura è sublime _ di una situazione storica che rimanda a quella del presente, elevata ad archetipo eterno. Integralmente e genialmente staliniano, terribilmente reazionario e, insieme, autenticamente rivoluzionario. Fotografia di Edvard Tissé (esterni) e Andrej Moskvin (interni). Musica di Sergej Prokof’ev.
Un gruppo dell’alta borghesia messicana si riunisce in un salone ma non può più uscirne, bloccato da una forza misteriosa. E nessuno può entrare. Quando l’incantesimo si rompe, si ritrovano in una chiesa. È una commedia nera ricca di acri succhi antiborghesi e anticlericali. In questa vicenda onirica, in questo mostruoso giro di atti mancati, il surrealismo di Buñuel si manifesta in tutta la sua ricchezza fantastica. Pur essendo assai precisa l’analisi di classe, si ha il sospetto che in questo verdetto d’impotenza Buñuel alluda a condanne più vaste e vi coinvolga il genere umano nel suo complesso. Scritto da L. Buñuel e Luis Alcoriza, rielaborazione del cinedramma Los naufragos de la calle Providencia, messo in scena da José Bergamín. Premio Fipresci a Cannes, Giano d’oro al Festival Latinoamericano di Sestri Levante, premio A. Bazin al Festival di Acapulco.
Totale … è l’adesione di Sjöström al mondo di Körkarlen. Il determinismo etico della Lagerlöf trova risonanze profonde nello spirito del cantore di Terje Vigen. L’armamentario del racconto è noto: la cornice cimiteriale, l’alcoolismo e l’Esercito della Salvezza, la leggenda macabro-istruttiva del Carrettiere della morte, le virtù redentrici dell’amore. In tutto questo, Sjöström individua lucidamente i lineamenti di una superiore retorica e, insieme, le ragioni contingenti di una “nordicità” sostanziale. Dopo gli approcci visionari di Holger-Madsen, è il primo appuntamento del cinema scandinavo col grande tema libertà-peccato. Tema, la cui inanità non ha bisogno di dimostrazione.
Il killer a contratto Shuji Kamimura ( Joe Shishido ) e il suo partner Shun Shiozaki ( Jerry Fujio) vengono assunti dal capo della yakuza Senzaki per eliminare un ex partner, il capo Shimazu, che si è appropriato di una cooperativa internazionale tra i due uomini.
Hong Kong, 1962. I coniugi Chow e i coniugi Chan si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti contigui. Sono il signor Chow e la signora Chan a rientrare più di frequente a casa ed è così che nel giro di breve tempo scoprono che i rispettivi consorti sono amanti. La volontà di comprendere le ragioni del tradimento subito li porterà a frequentarsi sempre più spesso e a condividere le sensazioni provate.
Un mite, silenzioso pensionato, ridotto a non essere più (economicamente) in grado di sopravvivere, rifiuta la tentazione del suicidio per non abbandonare il proprio cane. Uno dei capolavori del cinema neorealista, e il suo canto del cigno. Frutto maturo del sodalizio tra Zavattini e De Sica, sostenuto anche da ricerche, non tutte risolte, sul tempo e la durata (famosa la sequenza del risveglio della servetta), il film tocca una crudeltà lucida senza compromessi sentimentali, fuori dalla drammaturgia tradizionale. Non ha la “perfezione” di Ladri di biciclette, ma va al di là.
Questa seconda miniserie combina i due romanzi cronologicamente successivi al celeberrimo Dune di Frank Herbert: Messia di Dune e I figli di Dune. Conserva la suddivisione in tre episodi della precedente miniserie ma, approfittando del fatto che il romanzo Messia di Dune è lungo circa un terzo sia di Dune che de I Figli di Dune, si suddivide in realtà in due parti ben distinte. Il primo episodio copre le vicende narrate nel Messia, cioè fino alla nascita dei gemelli Atreides (Leto II e Ghanima); il secondo e il terzo episodio sono da considerarsi un unicum simile alla miniserie precedente, e coprono le vicende di Leto
The Stand è una miniserie televisivastatunitense formata da 9 episodi. La serie è in uscita in Italia il 3 gennaio 2021 su Starzplay.
The Stand è l’adattamento televisivo del popolare romanzo di Stephen King L’ombra dello scorpione, scritto per CBS All Access da Ben Cavell (SEAL Team) e Josh Boone (Colpa delle stelle). La miniserie è ambientata in un futuro post-apocalittico in cui la popolazione mondiale è stata decimata da un’arma batteriologica, un virus conosciuto a tutti con il nome di Progetto Azzurro o Capitan Trips, mutazione letale dell’agente eziologico dell’influenza. Il destino della razza umana è nelle fragili mani dell’ultracentenaria Abagail Freemantle (Whoopi Goldberg, Ghost), divenuta la guida spirituale di un gruppo di sopravvissuti che tenta di ricreare una società democratica nella città di Boulder, in Colorado. Tra questi ci sono la studentessa universitaria incinta Frannie Goldsmith (Odessa Young, Looking for Grace), lo studente represso e insicuro Harold Lauder (Owen Teague, Black Mirror), che ne è segretamente innamorato, il tecnico di un’azienda del Texas che produce calcolatrici Stuart Redman (James Marsden, Dead to Me), il musicista pop Larry Underwood (Jovan Adepo, The Leftovers), il sordomuto Nick Andros (Henry Zaga), l’anziano professore di sociologia Glen Bateman (Greg Kinnear, House of Cards), l’insegnante vergine dal misterioso passato Nadine Cross (Amber Heard, Aquaman), il socievole agricoltore Ray Brentner (Irene Bedard, FBI: Most Wanted) e il bonaccione Tom Cullen (Brad William Henke, Orange Is the New Black). Purtroppo, le loro buone intenzioni si scontrano con quelle di un altro gruppo di sopravvissuti, guidato da un demonio con poteri soprannaturali conosciuto come Randall Flagg (Alexander Skarsgård, Big Little Lies), e di cui fanno parte tra gli altri l’ex delinquente Lloyd Henreid (Nat Wolff) e la teenager ninfomane Julie Lawry (Katherine McNamara, Shadowhunters). Le leggi del tiranno Randall Flagg sono molto severe: chiunque non lo segua viene torturato e crocifisso. Quando i due campi profughi vengono a conoscenza l’uno dell’altro, il conflitto tra bene e male diventa inevitabile. Nel cast anche Heather Graham (Law & Order: True Crime), nei panni di Rita Blakemoor, una donna benestante che, malpreparata alla fine del mondo, cerca di fuggire da una New York infestata.
Nell’anno 10191 l’Imperatore delle Galassie destina il desertico pianeta Dune _ abitato dal popolo dei Fremen e ambito dai rapaci Hakkonen perché vi si trova la “spezia”, alimento che conferisce poteri preternaturali _ alla famiglia degli Atreides. Paul, ultimo erede con la madre Ramallo, insegna ai Fremen l’arte del combattimento per opporsi agli Hakkonen. Per 40 milioni di dollari, ispirandosi a un romanzo di Frank Herbert, Lynch ha fatto un film fantastico d’autore, farraginoso, squilibrato, qua e là enigmatico nello sviluppo della vicenda, talvolta geniale. Pittoresca galleria di personaggi. Memorabili i vermoni di Carlo Rambaldi e la fotografia di Freddie Francis. Prodotto da Dino e Raffaella De Laurentiis, esiste anche in un’edizione TV di 190′, montata a dispetto di Lynch che fece togliere la sua firma, sostituita da quella dell’ubiquo Allen Smithee. Stracciato da quasi tutti i critici anglofobi e da molti europei. Grande insuccesso di pubblico.
Dettagli sulla versione Alternative:
Spicediver (il nickname con cui si firma), si è assunto il compito di recuperare tutti gli spezzoni delle scene eliminate e di reinserirli nel film, rimontando l’intera pellicola secondo logica, correggendo diversi errori e restaurando anche il colore e la colonna sonora.
Il risultato di questo impegno è un magnifico film finalmente completo e certo più comprensibile, che surclassa le versioni precedenti, tanto quella cinematografica da poco rieditata in spettacolare Blu-ray – ma sempre mutilata
Nell’anno 10191 la galassia è completamente popolata dall’uomo, che si sposta da un pianeta all’altro grazie alle facoltà psicocinetiche dei piloti della Gilda spaziale, sviluppate da una droga, il melange, che può essere raccolta su un solo pianeta in tutto l’universo: l’arido e sabbioso Arrakis, soprannominato “Dune”. In un complesso gioco di potere, l’imperatore Shaddam IV alterna la concessione dello sfruttamento di Arrakis tra le varie casate della sua corte. Quando nel controllo di Dune subentra il duca Leto il giusto, capo della famiglia Atreides, il crudele barone Harkonnen, con il segreto appoggio dall’imperatore, trama la sua rovina. Un attacco a tradimento stermina il clan ed all’eccidio scampa soltanto Paul, il figlio di Leto. Fuggendo nel deserto di Arrakis, il giovane si imbatte nei Fremen, reietto popolo delle sabbie, che vive nell’attesa di un misterioso salvatore, preannunciato da una profezia. Col nome di Muad’Dib, Paul assume il comando dei Fremen, guidandoli alla vittoria nella lotta contro gli Harkonnen, che si sono impadroniti di Dune, e finirà per rivelarsi il Kwisatz Haderach delle profezie, l’essere supremo cui tutti, compreso lo stesso imperatore, dovranno inchinarsi.
Nuova trasposizione del bestseller di Herbert, che gode del vantaggio di svilupparsi nell’arco di tre puntate Tv, di circa un’ora ciascuna. La maggiore lunghezza ha permesso un approccio più razionale ed approfondito alle tematiche del ponderoso romanzo, consentendo di rappresentare più compiutamente il quadro politico, economico e sociale in cui si snoda la vicenda, rendendola in definitiva più comprensibile a quella parte di pubblico che non conosce l’opera letteraria. Splendida la fotografia di Vittorio Storaro e molto curate le scenografie, considerato anche il budget a disposizione. Improponibile invece il confronto con il cast assolutamente stellare del Dune di Lynch, eccezion fatta per William Hurt/Duca Leto, e Giancarlo Giannini/ Padisha Shaddam IV, nei ruoli che furono rispettivamente di Jürgen Prochnow e José Ferrer. Distribuito anche con il titolo Frank Herbert’s Dune, e in Germania come Frank Herbert’s Dune – Der Wüstenplanet.
Nel 1975 dopo il successo di nicchia di El Topo e quello più clamoroso (specie in Europa) di La montagna sacra Alejandro Jodorowsky era il cineasta intellettuale più ricercato del mondo, aveva carta bianca e quello che voleva era realizzare il film più importante della storia del cinema, traendo spunto dai romanzi di Frank Herbert. Il suo Dune, doveva essere un film rivoluzionario in grado di cambiare la mentalità delle giovani generazioni fornendo nuovi modelli di riferimento. Per fare questo il regista aveva coinvolto (e ottenuto!) la partecipazione di un team incredibile che comprendeva i designer H.R. Giger, Moebius e Chris Foss oltre all’esperto di effetti speciali Dan O’Bannon, le musiche dei Pink Floyd e attori come David Carradine, Mick Jagger, Salvador Dalì e Orson Welles. A preproduzione finita e storyboard completo però è mancato il completamento del finanziamento da Hollywood e il film non si è mai fatto. Almeno non nella maniera in cui Jodorowsky l’aveva immaginato.
Come ricorda il regista Nicolas Winding Refn, amico personale di Alejandro Jodorowsky intervistato per il documentario, è impossibile determinare quanto e come sarebbe cambiato il concetto di blockbuster se alla fine degli anni ’70, quando questo tipo di modalità produttiva stava emergendo, il punto di riferimento del cinema d’intrattenimento fosse diventato il Dune immaginato dal regista messicano invece del Guerre Stellari di George Lucas.
Per anni questo Dune mai girato è stato l’oggetto definitivo del desiderio cinefilo, assieme al noto librone contenente tutto il film scena per scena, illustrato da Moebius, con gli inserti di costumi e scenografie di Giger. Il manualone è la base dalla quale Jodorowsky rievoca oggi il suo film, raccontando per filo e per segno come sarebbe dovuto essere ma soprattutto rievocando l’incredibile storia di come sia partita e poi naufragata questa produzione, come abbia convinto quelle incredibili personalità a lavorare con lui e come li abbia stimolati per due anni a dare il meglio su un progetto che non si è mai fatto.
Il risultato è un documentario esilarante, in cui Frank Pavich, è molto bravo a scandire l’esuberanza dell’84enne Jodorowsky, alternandola con i bozzetti e le interviste agli altri interpreti dell’avventura, condendo i resoconti di come sarebbero state girate le scene con la visualizzazione (più o meno animata) dei disegni che furono fatti all’epoca.
Un lavoro di montaggio acuto e ritmato che mette il cineasta in seconda posizione per far emergere Jodorowsky, grandissimo interprete di se stesso e narratore dalla splendida capacità di trasmettere la passione e l’intensità di una ricerca totalmente folle, che procede per aneddoti tra l’improbabile e l’incredibile. Forse l’unica possibile maniera di analizzare a freddo come nasca l’arte.
2027. In un futuro non troppo distante, in cui il mondo non può più procreare, l’Inghilterra rimane unica zona franca, per non confrontarsi con le guerriglie urbane. Theo (Clive Owen), rapito da Julian (Julanne Moore), una donna attivista amata in passato, ha una grande responsabilità. Dovrà condurre salva una giovane donna fino a un santuario sul mare, e dare la possibilità al mondo di evitare l’estinzione. Sulla linea degli scrittori utopistici e futuristici, P.D.James ha scritto il romanzo da cui è tratto il film, in cui Cuaròn fin dalle prime sequenze ci illustra un mondo grigio, oppressivo, incolore, fra il pre-industriale (le costruzioni e i palazzi sembrano proprio quelli della “industrial revolution”), e il post-atomico, (per la scarsità di vegetazione). Londra appare come non cambiata, se non per i mercati ai bordi delle strade e gli autobus a due piani completamente scrostati dal tempo. In questo ambiente senza profondità si muovono i protagonisti. Ne sono una conferma gli stereotipi del multirazzialismo e del multilinguistico (quello che sarà non è per forza diverso da quello che è oggi). Nel panorama così definito, la macchina da presa segue Theo-Clive Owen in tutte le situazioni, come un inviato di guerra in una visione quasi documentaristico-soggettiva del futuro per acuire il senso di chiuso, di claustrofobia, e di mancanza di certezze. Ne è un esempio la guerriglia che, all’esterno della zona franca, appare come uno spaccato del conflitto jugoslavo, dove tutti sparano a tutti, e un proiettile vagante ha il potere di cambiare il personale futuro (la sequenza dei carrarmati che colpiscono una palazzina, è una scena di guerra impressionante). Per antitesi, la speranza di vita, rinascita di un “nuovo mondo”, è l’unica apertura del film all’ottimismo, in un percorso al buio, in cui il caso regna sulle esistenze di tutti. Children of Men è un film corale, è dell’umanità, (si propone raramente come singolo, per esempio nel caso dello scienziato Justice, Michael Caine, eremita per scelta ai bordi della società), perchè il futuro della terra non è dellindividuo singolo. È semplicemente globale.
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