Tre giovani amici di origine ucraina, operai in un’acciaieria di Clairton (Pennsylvania), partono per il Vietnam dopo aver festeggiato il matrimonio (rito ortodosso) di uno di loro. Catturati dai Vietcong, subiscono la tortura della roulette russa. All’inferno e ritorno. Il Vietnam occupa la parte centrale e un breve capitolo (enfatico) verso la fine, in cadenze di un’apocalisse allucinata, di un carnevale di morte. Film di taglio espressionista che alterna tempi dilatati (il matrimonio all’inizio, il finale col canto di “God Bless America”) a scorci fulminei. Gli imperativi etici sostituiscono l’analisi storica e i riti sociali s’impregnano di sacro. Due metafore come perni: la caccia al cervo (un solo colpo) e la roulette russa. 5 Oscar: film, regia, C. Walken attore non protagonista, montaggio, suono. 2° film di Cimino, 1° ruolo importante per M. Streep.
Si tratta della pellicola che ha reso Stallone, fino ad allora poco conosciuto, uno dei volti più amati di Hollywood[1] vincendo per di più tre premi Oscar tra cui quello per il miglior film e miglior regia; sempre grazie a Rocky Stallone diviene il terzo uomo nella storia del cinema dopo Charlie Chaplin e Orson Welles a ricevere la nomination all’Oscar sia come sceneggiatore che come attore per lo stesso film.
Da un romanzo (1962) di Ken Kesey: pregiudicato, trasferito in clinica psichiatrica, smaschera il carattere repressivo e carcerario dell’istituzione. La rivolta dura poco, ma lascia qualche segno. Premiato con 5 Oscar (film, regia, Nicholson e Fletcher, sceneggiatura di Bo Goldman e Laurence Hauben) _ come non succedeva da Accadde una notte (1934) _ è un film efficacemente e astutamente polemico sul potere che emargina i diversi e sul fondo razzistico della psichiatria. La sostanza del romanzo onirico di Kesey, scritto in prima persona, è depurata e trasformata in allegoria nell’adattamento scenico che ne fece Dale Wasserman e che forma la base della sceneggiatura. (Fu portato in scena nel 1963 da Kirk Douglas che spinse il figlio Michael a produrre il film.) Ottima squadra di attori che comprende anche il pellerossa W. Sampson.
Dal romanzo di Avery Corman. Moglie insoddisfatta lascia il marito e il figlioletto. Il babbo si trasforma in mamma e conquista l’affetto del bambino, ma diciotto mesi dopo lei ritorna a reclamare la custodia. Finiscono in tribunale. Strappalacrime e spezzacuori, tutto raccontato dalla parte di lui. Il che non impedisce di ammirarne la maestria ruffiana. 9 Nomination e 5 premi Oscar (miglior film, regia, sceneggiatura, attore protagonista, attrice protagonista), enorme successo di pubblico.
Duramente sconfitte in Tunisia, le forze americane si prendono la rivincita sotto la guida di Patton. Conquistata la Sicilia, il generale al comando della III Armata vince a Bastogne e nelle Ardenne, infliggendo duri colpi ai tedeschi. Grazie anche a un eccellente G.C. Scott, il film ha una 1ª parte ammirevole, ma poi il ritratto critico diventa agiografico. 7 Oscar: film, regia, Scott attore protagonista, sceneggiatura (di F.F. Coppola e E.H. North), scenografia, montaggio, suono.
Oliver Twist è cacciato dal collegio di miserabili dove vive e si reca a Londra. Qui cade preda di una banda di ragazzi violenti che lo iniziano al furto. Un gentiluomo lo prende però sotto la sua protezione e malgrado Oliver venga perseguitato dai suoi antichi compagni, il suo benefattore riesce a tenerlo sempre con sé.
In una cittadina del Mississippi lo sceriffo bigotto e razzista è costretto a lavorare con un ispettore nero dell’FBI per risolvere un caso di omicidio. Il sodalizio fra i due fa scintille. Benché sopravvalutato (anche 5 premi Oscar: film, sceneggiatura, R. Steiger, suono e montaggio), è un poliziesco efficace per l’ambientazione, l’atmosfera, il trattamento dei temi razziali, l’ottima interpretazione. Seguito da Omicidio al neon per l’ispettore Tibbs (1970) e L’organizzazione sfida l’ispettore Tibbs (1971).
Come Thomas More (1478-1535), umanista, giurista, cancelliere del regno si rifiutò, fermo nelle sue convinzioni religiose, di avallare il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona e lo scisma anglicano. Fu condannato a morte e decapitato il 7 luglio 1535; fu canonizzato nel 1935 sotto papa Pio XII. È un più che dignitoso esempio di teatro in scatola che un regista galantuomo ha messo in immagini con una cura pari all’adesione appassionata alla tematica del dramma. 5 premi Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura di Robert Bolt – che è anche l’autore del dramma teatrale (1960) -, fotografia di Ted Moore, Scofield. Welles ha la piccola parte del cardinale Wolsey. Grande successo soltanto in Gran Bretagna.
A Salisburgo, nel 1938, Maria, un’orfana entrata da poco come novizia in un convento di suore ha, per l’epoca, una vivacità tale da lasciare qualche dubbio su una reale vocazione. La madre superiora decide quindi di farle fare un periodo di attività all’esterno come istitutrice dei sette figli di un rigido e vedovo comandante di Marina. I giovani, dopo un’iniziale diffidenza, si legheranno a lei mentre il padre, in procinto di risposarsi, comincerà ad interrogarsi su cosa provi per Maria.
La sceneggiatura è ispirata al testo teatrale Pigmalione di George Bernard Shaw. Una incolta e rozza fioraia viene trasformata da uno studioso, in seguito alla scommessa con un amico, in una fanciulla raffinata e perfettamente a suo agio nei salotti dell’alta società. A esperimento concluso, la ragazza non sa tornare al vecchio lavoro e inoltre si è innamorata perdutamente del suo insegnante. Anche lui si renderà conto di amarla quando lei lo lascerà, per disperazione, e farà in modo di ritrovarla e tenerla per sempre con sé.
Una spedizione di cui fanno parte due promessi sposi parte per il Rio delle Amazzoni dov’è stata segnalata la presenza di un misterioso animale preistorico. Il mostro anfibio è catturato, ma fugge. Molti morti. Piccolo film culto per i fan del genere. Ebbe tanto successo che ne generò altri due: La vendetta del mostro (1955) e Terrore sul mondo (1956). Spavento e horror in giuste dosi con risvolti di simpatia per la creatura e sottintesi erotici. Magnifiche riprese subacquee. Trucchi ottimi per quell’epoca. Girato in 3D.
Dal romanzo (1976) di Manuel Puig: in un carcere brasiliano Molina, omosessuale condannato per corruzione di minorenne, è in cella con Valentin, politico ribelle. Si vorrebbe usare il primo per avere informazioni dal secondo. Intanto gli racconta i film che hanno deliziato la sua giovinezza. Tra i due si produce uno scambio. Il lato debole del film è la visualizzazione dei racconti (con S. Braga); la sua forza nel rapporto tra i due personaggi, nel clima di morbida ambiguità che si crea tra loro, nella valentia dei due interpreti. Messinscena teatraleggiante su una sceneggiatura di L. Schrader. Premiato a Cannes, W. Hurt vinse anche un Oscar. Efebo d’oro 1986.
Dal romanzo (1749) di Henry Fielding: nell’Inghilterra del Settecento il trovatello Tom, adottato da un ricco filantropo, cresce nel lusso finché viene buttato fuori di casa dal legittimo erede. Dopo molte avventure, sposa la figlia del benefattore. Debordante di artifizi e di civetterie, realizzato con entusiasmo più che con disciplina, felicemente infedele al romanzo trasformato in uno scattante racconto di cappa e spada, in bilico tra satira e parodia sulla scorta di una sagace e aguzza sceneggiatura di J. Osborne, è un film colorito e mosso, ricco di divertimento e sorprese, recitato bene da tutti, benissimo da A. Finney. Ebbe 9 nomine e 4 premi Oscar: film, regia, sceneggiatura e musiche di J. Addison. Voce off italiana di E.M. Salerno.
Jerry Mulligan, finita la guerra, è rimasto a Parigi per dipingere. Vive in un localino dove il letto e il tavolino rientrano nel soffitto e nella parete e va a esporre i quadri, che nessuno compra, a Montparnasse. Viene abbordato da una ricca, attempata americana che gli compra un quadro. Ma poi conosce la giovane e graziosa commessa della quale si innamora, senza sapere che la ragazza sta per sposare il suo amico Paul. Un altro personaggio è il musicista-genio (Levant), che suona tutti gli strumenti dell’orchestra. Alla fine tutto va a posto. L’amore trionfa. Sulla base di questa trama quasi banale, “alla musical”, Minnelli regista e Kelly ballerino-cantante-attore-coreografo, costruiscono non solo un capolavoro del cinema, ma un’opera composita che figura benissimo nell’arte del Novecento. Naturalmente è determinante la musica di George Gershwin che compose forse la sua più importante sinfonia, fatta apposta per far brillare le prerogative del cinema. Tutte le canzoni (cantate oltre che da Kelly anche dallo “chansonnier” Paul Guétary, idolo parigino) sono classici indimenticabili. La Metro, nella realizzazione di questi film, era molto rigorosa e generosa, assumeva i più bravi consulenti da ogni parte del mondo. I balletti di Kelly sono studiati in scenografie che si richiamano ai grandi quadri impressionisti (Renoir e Monet soprattutto) e a Toulouse-Lautrec. Il numero centrale viene considerato un capolavoro anche dai grandi coreografi del balletto classico, come Béjard. Naturalmente la tendenza di Minnelli, in quasi tutti i suoi film, era una certa concessione al kitch, che nel musical quasi non andrebbe considerato “caduta”, ma valore aggiunto. Il film è uno dei più premiati nella storia degli Oscar, ben sei. Va detto che il musical è l’unica forma d’arte tutta e solo americana. Molto spesso Hollywood ha attribuito Oscar a film musicali (Gigi, My Fair Lady, Tutti insieme appassionatamente, Oliver!, West Side Story). L’anno dopo lo stesso gruppo produttivo (solo il regista Donen sostituì Minnelli) realizzò Cantando sotto la pioggia che… rimase senza Oscar pur essendo per certi versi più intelligente e con maggiore vedibilità a posteriori. Questa “tardiva” stagione del musical prodotta da Arthur Freed (Sette spose per sette fratelli, Spettacolo di varietà, Baciami Kate! e altri) rappresenta una punta qualitativa altissima del cinema, che poteva contare ancora sulle belle ingenuità indispensabili, sostenute da una tecnica ormai perfezionata.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, in un villaggio coloniale dell’Africa orientale, il poliziotto Cordier si trascina in un’esistenza abulica e priva di senso. Abbruttito, privo di dignità e di coraggio, non soltanto non si cura dell’ordine pubblico, ma si lascia tradire dalla moglie e beffare dai guappi locali. L’arrivo in paese di Anne, maestrina tutta candore, scatena in lui qualche insospettabile alchimia, spingendolo a dare un “colpo di spugna” nel nome di un’allucinata giustizia che lo porta a far fuori tutti i suoi nemici (o supposti tali). Da un romanzo di Jim Thompson.
Pink Floyd: Live at Pompeii, uscito in Italia anche con il titolo Pink Floyd a Pompei, è un film-documentario-concerto diretto da Adrian Maben, uscito nella versione per le sale cinematografiche nel 1974 e incentrato sulla musica del gruppo rock inglese dei Pink Floyd.
Maben concepì l’idea di base per il film nel 1971: già all’inizio dell’anno aveva contattato il manager del gruppo Steve O’Rourke con l’idea di combinare la musica dei Pink Floyd con opere di artisti contemporanei come De Chirico, Magritte ecc., ma la band aveva declinato l’offerta.[1]
Nell’estate 1971, il regista si recò in vacanza in Italia con la fidanzata e, nel tentativo di recuperare il suo passaporto che credeva aver smarrito durante una visita alle rovine di Pompei, tornò al crepuscolo nell’antico anfiteatro romano di Pompei e lo ritenne una location perfetta per filmare la band in azione.[1]
Fin dall’inizio, Maben immaginò che i Pink Floyd dovessero suonare nell’anfiteatro vuoto, senza pubblico, volutamente in contrasto con precedenti film-concerto, come Woodstock.[1] Grazie alla sua conoscenza con il prof. Ugo Carputi dell’Università di Napoli,[1] il regista ottenne dalla locale soprintendenza il permesso di effettuare sei giorni di riprese nel sito archeologico campano, per l’occasione chiuso al pubblico, l’ottobre seguente.
I Pink Floyd furono irremovibili riguardo l’eseguire tutto il materiale dal vivo, senza alcun playback: ciò implicò il trasporto in Italia, via camion, di tutta la loro attrezzatura da concerto, luci escluse, assieme a un impianto per la registrazione a 24 tracce che garantisse la stessa qualità sonora dei loro lavori in studio.[1]
La troupe, giunta sul posto, scoprì di non avere sufficiente elettricità per alimentare tutta l’attrezzatura. L’inconveniente fu risolto portando la corrente elettrica direttamente dal Municipio mediante un lunghissimo cavo che percorreva le strade della cittadina campana;[1] tale circostanza restrinse i tempi effettivi di ripresa a soli quattro giorni, dal 4 al 7 ottobre del 1971.
Le scene girate per prime in ordine di tempo ritraevano i quattro musicisti aggirarsi fra i vapori della solfatara di Pozzuoli; quindi, nell’Anfiteatro Romano la band eseguì dal vivo tre brani: la prima metà e il finale di Echoes, One of These Days, e A Saucerful of Secrets; ciascun brano fu eseguito in sezioni separate, poi montate assieme; al termine di ciascuna esecuzione, la band la riascoltava in cuffia per approvarla.[2]
Il regista ha rivelato in anni recenti[3] che diverse bobine di pellicola andarono smarrite subito dopo le riprese: questo, fra l’altro, spiega perché il brano One of These Days include quasi esclusivamente inquadrature del batterista Nick Mason, il quale ha confermato la vicenda nella sua autobiografia del 2004.[4]
All’epoca delle riprese a Pompei l’album Meddle, contenente i brani One of These Days e Echoes eseguiti nel film, non era ancora sul mercato sebbene il gruppo ne avesse già ultimato le registrazioni in agosto: fu pubblicato infatti il 30 ottobre negli Stati Uniti e il 5 novembre in Europa
1868: la guerra civile è finita da tre anni ed Ethan (Wayne) torna a casa. Viene accolto dalla famiglia del fratello. Qualche giorno dopo, con un gruppo di coloni partecipa a una battuta contro una banda di indiani. Nel frattempo la famiglia di suo fratello viene trucidata, tranne una nipotina di pochi anni che viene rapita dagli indiani. Insieme al giovane Martin (J. H.) Ethan comincia la ricerca, che durerà dieci anni. Alla fine trova la ragazza che è diventata un’indiana. Ethan è sul punto di ucciderla, ma all’ultimo momento si ravvede e la porta a casa. Il film è considerato un capolavoro persino dalla grande critica ufficiale, che ha sempre ritenuto il western un genere minore e troppo popolare. Nella più recente classifica stilata da critici di tutto il mondo Sentieri selvaggi è addirittura al quarto posto. In realtà Ford aveva realizzato altri capolavori, più puliti e rigorosi, come Ombre rosse e Sfida infernale, ma Sentieri selvaggi presenta un versante “intellettuale” e spurgato del mito che lo fa preferire (da “quella” critica appunto) ai precedenti titoli, più ingenui e allineati a una morale più rassicurante e “bonariamente” manichea. Si tratta comunque di un grande film che dibatte i grandi temi fordiani e ne aggiunge altri. Wayne non era mai stato così negativo e isterico: l’attore si piacque tanto che diede a suo figlio, nato in quei giorni, il nome di Ethan. Wayne e il giovane compagno percorrono territori e stagioni, nel deserto, nella neve, fra gli indiani, i banditi, i piccoli e grandi paesi, guidati da una notizia, da un sentito dire. Ciclicamente tornano a casa, sempre più stanchi e delusi, ma ripartono e continuano a cercare la ragazza. Faticano a oltranza per la propria identità e coerenza.
Gianni, impiegato trentenne che vive a Milano con moglie e figlio, non ha mai visto Paolo, altro suo figlio, nato da un parto traumatico costato la vita alla giovanissima madre e affidato agli zii materni di Roma. A distanza di anni lo raggiunge su un treno diretto a Berlino dove Paolo, quindicenne con gravi disturbi psicomotori, è sottoposto alle terapie di una clinica specializzata. Il racconto si conclude in Norvegia con un abbraccio tra padre e figlio. Un finale che è un inizio, quello di una vita insieme da condurre nei fastidi e nella fatica di ogni giorno. Come dire che l’amore non basta, che “nun se fa così”, se non c’è un’assunzione costante di responsabilità. Come altri di Amelio, è un film di viaggio, sostenuto da “una morale della necessità nella quale non si può distinguere il fatto dalla forma ” (M. Grande). Ispirato a Nati due volte (2000) di Giuseppe Pontiggia, scritto dal regista con Rulli e Petraglia, è il film più semplice, lineare, ellittico di Amelio che lo chiama, paradossalmente ma non a torto, il suo film più allegro. Forse, però, è il film più pessimista di un cineasta oggi così sfiduciato nei rapporti tra realtà e cinema. Ne fa un film depurato e intenso alla soglia del sociale: l’handicap – la diversità – non è il tema del film, ma il film stesso. A. Rossi/Paolo gli dà l’acqua della vita. K. Rossi Stuart, bello da copertina, è perfetto, mentre C. Rampling è una mater dolorosa inquietante. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Franco Piersanti. David di Donatello a Alessandro Zanon (presa diretta). 3 Nastri d’argento: regia, fotografia, fonico.
Primo violino in un’orchestra, S. è dotato di una memoria eccezionale che gli è fonte di disagi e infelicità. Dopo un lungo ma non risolutivo rapporto con il prof. L., noto psichiatra, si riduce a diventare un’attrazione nel mondo dello spettacolo. Scritto dal regista con Lara Fremder e Giuliano Corti, tratto da Un piccolo libro una grande memoria (1965) del neuropsicologo russo Aleksandr R. Lurija sul caso di Solomon Cerecevskij, è il 1° lungometraggio in pellicola del milanese “Studio Azzurro”, attivo in vari settori sperimentali dell’audiovisivo, di cui Rosa fu nel 1982 uno dei fondatori. Ambientato in un generico paese dell’Europa centrale degli anni ’20-’30, conduce lo spettatore in un originale percorso visivo attraverso il labirinto della mente, affrontando in un modo nuovo i temi della memoria, del potere dell’immaginazione e della necessità dell’oblio. Con l’ottimo Lombardi, teatrante off, che parla spesso in macchina nel confessarsi al medico dell’altrettanto bravo Herlitzka, calato in immagini infallibili (Fabio Cirifino) è “un film concettuale, ironico e leggero perché colto” (F. De Bernardinis) che scansa ingorghi o eccessi dell’immaginario con un linguaggio di classica lucidità. Troppo eccentrico per essere capito e valutato come meritava. 1° premio al Sulmonacinema Festival.
Un film di Abbas Kiarostami. Con Ali Sabzian, Hassan Frazmand, Abolfazi Ahankhah Titolo originale Nema-ye nazdik. Drammatico, durata 100′ min. – Iran . MYMONETRO Close-up valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Facendosi passare per il noto regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, un povero disoccupato circuisce una ricca famiglia borghese. Smascherato, al processo si dichiara pentito e viene perdonato. A poche settimane di distanza dagli avvenimenti, A. Kiarostami ricostruì e filmò la vicenda con i suoi protagonisti veri. Il processo per truffa diventa un’arringa per il diritto alla finzione e il riconoscimento del bisogno di essere un altro. Il regista gioca a fare del documentario con la finzione e della finzione con il documentario. “La vicenda si svolge prescindendo da me. Più che negli altri miei, la realtà contenuta in questo film ne fa un caso a parte” (A. Kiarostami).
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