Mon oncle Antoine (Mon oncle Antoine) è un film del 1971 diretto da Claude Jutra.
La regione rurale freddo del Quebec dal 1940 fa da cornice a questa storia di un adolescente e la sua famiglia, che gestisce l’attività principale delle persone e anche il funerale, concentrandosi su nuove esperienze e il processo di maturazione di fronte al ragazzo.
Insoddisfatta del suo lavoro di dirigente di una importante galleria d’arte a Los Angeles, in crisi con il marito, ricco, bello, di successo e algido quanto lei, Susan riceve la bozza del libro di Edward, suo primo marito che non vede da 19 anni, sposato per passione – contro il volere della famiglia – lasciato per calcolo e sfiducia nel suo talento. La lettura del dattiloscritto la coinvolge e sconvolge: un uomo in viaggio di notte con la moglie e la figlia adolescente finisce nel mirino di 3 balordi violenti. La vicenda del romanzo – brutta, sporca e cattiva – si intreccia con i flashback della sua storia d’amore e con gli eventi della vita odierna, in una cornice lussuosa, asettica, patinata, falsa. Dopo 7 anni dal suo esordio, Ford torna alla regia con una storia d’amore e di vendetta (dal libro Tony & Susan , 1993, di Austin Wright) violenta ed elegante, attraversata da alcune battute folgoranti, con un cast di prim’ordine, non solo i 2 protagonisti Gyllenhaal (nel doppio ruolo dell’ex marito e del protagonista del libro) e la Adams. Memorabili musiche hitchcockiane. Gran Premio della Giuria a Venezia 2016.
Sono quasi sicuro di averlo visto ma non mi ricordo niente. Mi sembra sia un bel film però.
Nella Londra vittoriana, Victoria, una giovane donna incinta, si uccide buttandosi nel Tamigi.
Tempo dopo, lo spigliato studente di medicina Max McCandles viene invitato dall’eccentrico chirurgo Godwin Baxter a collaborare con lui a un esperimento. Al giovane viene richiesto di assistere Bella, una ragazza dai comportamenti molto infantili di cui presto si innamora. Incuriosito dagli strani atteggiamenti della donna, però, Max mette alle strette Baxter, il quale gli svela la verità: recuperato il corpo di Victoria, vi aveva impiantato il cervello del feto sopravvissuto dando quindi vita a una “nuova” ragazza.
Radiografia di un malessere esistenziale che in un giovane nullafacente di Taipei si manifesta in forma di dolore e di una malattia del corpo, sintomo del deserto d’amore familiare in cui vive. Scena culminante e tremenda: il commercio sessuale tra padre e figlio inconsapevoli in una sauna per uomini soli (e gay). 3° film di un regista taiwanese, premiato con l’Orso d’argento a Berlino 1997, che punta sugli abituali temi della solitudine e della incomunicabilità, una narrazione ellittica, un metaforico microrealismo.
Un’esperienza. Inland Empire di David Lynch non è un film organico, lineare, comprensibile, con un inizio e una fine definibili tali, ma è innanzitutto un’esperienza sensoriale. Un flusso di pensiero libero di un artista, che non richiede spiegazioni, ma solamente intuizioni, emozioni personali, positive o negative che siano. Si potrebbe parlare di mondi paralleli, di realtà e finzione che si fondono, si incontrano, si abbandonano, di cinema e televisione (e di pellicola e digitale), del concetto del Tempo, non sequenziale, “random” e assoluto. Si potrebbe anche analizzare il film nei dettagli dei frammenti che compongono la storia. Si potrebbe anche non giudicare, e semplicemente sentire, subirne il suo effetto. Inland Empire, infatti, per la lunga durata (172 minuti di Lynch, in ogni caso, mettono a prova anche i suoi fan), è uno straordinario bombardamento di immagini e suoni, ai quali lo spettatore non può non reagire. La perdita dell’orientamento che ne consegue provoca una totale apertura verso ciò che è sullo schermo, generando le emozioni a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Lo si può amare, odiare, rifiutare, non giustificare. Paradossalmente, in riferimento al giudizio di valutazione potrebbe valere una stella, tre stelle, cinque stelle. Il sospetto che un’opera simile sia un divertissement di Lynch stesso, non va tralasciato. Anche se fosse, comunque, il risultato sarebbe il medesimo, perché di questi tempi uscire con una sensazione violenta, da una sala è sempre più raro. Inland Empire è un’esplorazione, un esperimento, un varcare i confini noti e verificarne la possibilità e i limiti. Fra dieci anni, chissà, sarà considerato un capolavoro.
Un sogno/incubo ad occhi aperti, la follia su pellicola, nessuna logica. Non tutti arriveranno alla fine.
Dal romanzo Il postino suona sempre due volte (1934) di James Cain: malmaritata a un uomo più vecchio di lei, una donna induce un giovane vagabondo di cui è diventata l’amante a uccidere il consorte in un incidente automobilistico truccato. Qualcosa di più di un film: una bandiera, un manifesto, un simbolo. Memorabile esordio di Visconti, aprì la strada al neorealismo postbellico, agganciò il cinema italiano alla cultura europea della crisi, fu la scoperta di un’Italia amara, fatta con violento pessimismo, tramite il filtro del romanzo nordamericano e del realismo francese di J. Renoir. Nonostante difetti, eccessi, compiacimenti estetizzanti, un ammirevole esempio di fusione tra realismo e decadentismo. Scritto da Visconti, G. De Santis, M. Alicata, M. Puccini e, non accreditati, R. Assunto e S. Grieco. Fotografia: Aldo Tonti, Domenico Scala. Musica: Giuseppe Rosati. Marcuzzo (nel film lo Spagnolo) fu impiccato per errore con il fratello Armando (e seppelliti vivi) nell’aprile 1945 da una banda di partigiani, comandata dal sanguinario Gino Simionato detto il Falco che, con altri 3, fu indagato e prosciolto nel ’54 per amnistia. Il romanzo di Cain fu filmato dal francese P. Chenal (1939) e dagli americani T. Garnett (1946) e B. Rafelson (1981).
Dal romanzo (1934) di James Cain, filmato anche da P. Chenal (1939), L. Visconti (1943), B. Rafelson (1981): sensualmente intrappolato dalla moglie del padrone dell’autogrill dove lavora, un giovanotto uccide il principale. Il destino aspetta dietro l’angolo. Per ragioni di censura il legame tra sesso e violenza, così esplicito in Cain, è suggerito da Garnett con un clima claustrofobico e segnali indiretti che fanno degnamente appartenere il film al genere noir. Conta soprattutto per la presenza di L. Turner e di J. Garfield, ma anche i personaggi di contorno sono ben disegnati.
4ª trasposizione del romanzo (1934) di James Cain, la 1ª che mette in immagini esplicite la rude e aggressiva sensualità che, per ragioni di censura, i registi precedenti avevano dovuto comprimere o elidere. Di questa storia di un amore che, nato da una violenta attrazione fisica, si trasforma in un rapporto più profondo e complesso, Rafelson fa un altro film sul “sogno americano”, la sua trasformazione in incubo, descrivendone _ col contributo notevole della fotografia di Sven Nykvist _ il contesto sociopolitico. Più che J. Nicholson, un po’ troppo vecchio per la parte e talvolta sopra le righe, è ammirevole J. Lange, migliore delle 3 attrici che l’hanno preceduta: Corinne Luchaire, Clara Calamai e Lana Turner
Gelsomina è un’adolescente introversa che vive nella campagna umbra con i genitori e le sorelline. Primogenita tutelare e solerte nelle faccende familiari, Gelsomina è inquieta e vorrebbe andare via, scoprire il mondo che comincia dopo il suo casale. A trattenerla è un padre esclusivo e operaio, alla maniera delle sue api, che guarda a lei ancora come a una bambina. La loro routine, scandita dalle stagioni e dall’impollinazione delle api mellifere, è interrotta dalla presenza di una troupe televisiva e dall’arrivo di Martin, un ragazzino con precedenti penali che deve seguire un programma di reinserimento. L’esoticità di una conduttrice tv e di un adolescente senza parole impatteranno la vita di Gelsomina e della sua famiglia, promettendo ciascuno a suo modo ‘meraviglie’.
I fatti più salienti della vita di Gesù visti dagli occhi di Maria Maddalena, ricca cortigiana, il cui amante Giuda Iscariota diventa uno dei seguaci di Cristo. Allora lei lo sente predicare, si pente dei suoi peccati e diventa pure sua discepola, seguendolo fino alla sua crocifissione e resurrezione.
Killer psicopatico si traveste da donna per compiere efferati delitti. Il figlio della vittima e squillo di lusso si mettono sulle sue tracce. Grande ammiratore e studioso di Hitchcock, De Palma lo echeggia nello stile ( Psyco , La donna che visse due volte ) ma dal maestro non ha appreso la logica dell’intrigo, l’onestà verso lo spettatore e la credibilità umana dei personaggi. Entra di diritto, comunque, nell’antologia dell’erotismo. Colonna sonora assai efficace di Pino Donaggio.
Uccidono una mondana in riva al Tevere. La polizia comincia a tartassare le persone (ruffiani, ladri, ragazzi di vita) viste sul luogo nelle ore dell’omicidio. Accusati da un vagabondo, due minorenni sono presi dal panico e scappano. Nella fuga uno muore. Il vero colpevole verrà scoperto solo alla fine. Esordio del ventitreenne Bertolucci, sotto l’ala di Pasolini.
Un giovane (Tadeusz Lomnicki), prima dedito a piccoli furti, diviene, per influenza d’una ragazza (Urszula Modryzinska) membro attivo della Resistenza. La ragazza viene arrestata e giustiziata, il giovane continua a combattere. È questo il primo lungometraggio del giovane Wajda, un’opera romantica e affascinante, che rivela le contraddizioni della Resistenza polacca, ma che è soprattutto una bellissima storia d’amore. Il film fu osteggiato negli ambienti politici perché fresco e sincero, non privo di humour, vero, franco, e tutt’ altro che “eroico” nella visione di moda (ricalcata di solito per questo tipo di film sulla Giovane guardia sovietica). Noto anche, dal titolo francese, come Una ragazza ha parlato.
In un campo coltivato nel sud della Francia, all’alba di un giorno invernale, un contadino trova il cadavere di una ragazza. La polizia non riesce a identificare la giovane vagabonda e ritiene che questa sia morta per il freddo e gli stenti. Il film della Varda, premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 1985, è costruito con una serie di flash-back. Parlano le persone che avevano conosciuto la ragazza prima della sua morte inspiegabile. Dalle testimonianze vien fuori il ritratto doloroso e commovente di una giovane ribelle che aveva scelto di vivere senza tetto né legge.
A Torino all’inizio del secolo gli operai di una fabbrica sono in urto con i padroni. Ci vuole uno sciopero ad oltranza, e per organizzarlo arriva da Roma il socialista professor Sinigaglia. Lo sciopero è spento nel sangue. Ma intanto i lavoratori hanno imparato a battersi per i loro diritti. La nascita del sindacalismo è raccontata da Monicelli nei modi che gli sono propri, quelli della commedia all’italiana.
Tre giovani amici – il giornalista Alex, il commercialista David e la dottoressa Juliet – cercano un coinquilino con cui condividere le spese del grande appartamento in cui vivono. Finalmente un giorno trovano la persona giusta, ma, dopo la prima notte trascorsa nella casa, il nuovo inquilino viene trovato cadavere. Sembrerebbe un suicidio. I tre stanno per chiamare la polizia, quando si accorgono che l’uomo aveva con sé una valigia piena zeppa di soldi. La tentazione è troppo forte. Alex e Juliet, i più spregiudicati, convincono il più prudente e restio David a sbarazzarsi del cadavere per dividersi quella montagna di denaro. Un esordio che lascia il segno. Quello dell’inglese Danny Boyle dietro la macchina da presa, usata deliziosamente per dirigere un piccolo gioiello della black comedy.
A partire da una folgorante prima sequenza, dove l’accesissimo rosso dei titoli di testa lascia intendere i retroscena macabri di cui sarà costellato l’intero film. Così come la surreale enunciazione di un biondino pallido sull’importanza di amicizia e fiducia, con hitchcockiano movimento di macchina a spirale sul suo volto. Subito dopo, il movimento di macchina si fa frenetico, convulso, vertiginoso, all’inseguimento di un’auto che corre per le vie di una città elegante ma anonima. In questa prima sequenza è condensato il manifesto stilistico del film, così come dell’intera poetica di Boyle, regista che in seguito ci abituerà a piacevoli sorprese, soprattutto con il vertice di Trainspotting, che avrebbe consacrato il talento dell’attore Ewan McGregor, qui promettente sconosciuto. Manifesto stilistico, quindi, ma non mero esercizio di stile. Perché, oltre a un senso estetico di plastica bellezza – accentuata da un’esaltazione pop dei colori e da inquadrature vertiginose e a spirale che citano e omaggiano il maestro del brivido Hitchcock – questo primo lavoro di Boyle regala momenti di autentico spasso amorale e visionarietà. Come la folle e divertentissima presentazione iniziale dei tre protagonisti, che mettono in moto un cast, con tanto di domande matte e spiazzanti, per scegliere il coinquilino giusto, quello in grado di reggere i loro cinici giochi di ruolo. O la conturbante scena del ballo tra Alex e Juliet e quella, più surreale, in cui lui è vestito da donna e guarda con lei un filmino, al massimo della complicità. Dal grottesco umorismo nero, che esalta l’amoralità dei due protagonisti, si passa al raccapricciante e visionario incubo allucinatorio del terzo personaggio, destinato, dai giochi crudeli dei due amici, a passare improvvisamente dal ruolo di vittima a carnefice. In questa seconda parte, il regista perde un po’ la presa, soprattutto per alcune forzature di sceneggiatura e per il sottotesto moralistico che suggerisce come l’avarizia possa scatenare i peggiori istinti dell’uomo e rovinare solide amicizie. Che, in realtà, non erano poi così solide, dato che sottilmente logorate da una latente gelosia, in un triangolo dominato – come in ogni noir che si rispetti – dalla classica femme fatale infida e manipolatrice. Interessanti suggestioni psicologiche, che alla fine chiudono il cerchio, ritornando là dove tutto era iniziato.
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