Per la Sicilia del ’53 con un autocarro, un tendone e una cinepresa Joe Morelli (Castellitto), sedicente inviato di una casa cinematografica romana, va in giro a fare provini (falsi) a pagamento, promettere fama e denaro,spacciare illusioni, alimentare speranze. Verrà duramente castigato. Nonostante le debolezze di sceneggiatura (scritta con Fabio Rinaudo), sono apprezzabili la direzione degli attori, il disegno dei personaggi minori (Trieste, Gullotta, Sperandeo), la sapienza concisa del narrare, le luci e il colore di Dante Spinotti, la forte sequenza dell’occupazione delle terre. Premio speciale della giuria a Venezia 1995 ex aequo con La commedia di Dio di Monteiro.
Sostituita versione con una che ho rippato direttamente da dvd originale
Galleria di personaggi che si incrociano nella Hollywood dei tempi nostri: una misteriosa ragazza deturpata nel volto e nel corpo dalle cicatrici di terribili ustioni, un affascinante autista che però è aspirante attore e sceneggiatore, un ragazzino protagonista di una mediocre serie TV molto popolare, figlio di uno psicologo, e una bellissima diva sul viale del tramonto all’inseguimento del ruolo agognato, figlia a sua volta di una nota attrice. Belli, ricchi, soli e infelici, usciti dalla penna di Bruce Wagner, autore di libri che illustrano con surreale e crudele humour l’inferno di un ambiente che conosce fin troppo bene. Non è un film di Cronenberg, è un film che Cronenberg ha diretto: seppur privo di giudizi moraleggianti e di facile ironia, manca dell’intensità, della forza che coinvolge, emoziona e atterrisce, riducendosi a essere “un melodramma a fosche tinte sessuali… un dramma sulle devastazioni inflitte e subite nella ricerca sfrenata del successo, una versione “nera” dell’ambiente caro a Sofia Coppola” (G. Molteni).
Tratto dal romanzo di Robert Musil (1880-1942), Il film effettua una minuziosa registrazione dei rituali sadici che scandiscono la convivenza fra studenti, dei meccanismi di sopraffazione e del disprezzo per la libertà dell’individuo, che automaticamente dividono il mondo adolescenziale in carnefici e vittime, legati tra loro da morbose e torbide passioni.. Attraverso il paradigma del collegio, il regista tedesco vuol guardare al baratro nel quale erano sprofondati i popoli di lingua tedesca sotto il nazismo.
Nell’autunno del 1945 un giovane americano, di nascita tedesca e di buona volontà, ritorna nella patria in rovina, trova un posto come conduttore di vagoni-letto e, grazie a un coinvolgimento amoroso, si fa incastrare da un gruppo terroristico di Lupi Mannari, irriducibili nazisti non rassegnati alla sconfitta. Cocktail di thriller e melodramma con una componente umoristica. Più che la storia, artificiosa e quasi banale, e più che i personaggi, conta l’apparato tecnico-formalistico: colore contrapposto al bianconero, sovrimpressioni, obiettivi deformanti, cinepresa dinamica, scenografie di taglio espressionistico. Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma.
Presentato a Cannes 2002. Tratto dal romanzo di Patrick Mc Grath. Si racconta di un uomo molto malato – il termine esatto è schizofrenia paranoica – che, ospitato in un’orrenda pensione insieme ad altri relitti, ricorda la sua vita. Il nodo di tutto il disastro sembra risalire al padre, che abbandonata la madre si era messo con una puttana, ignorando completamente il figlio. La chiave psichica iniziale, cioè infantile, provoca deliri perenni al poveretto. Davvero una sorta di horror interno, perfettamente nelle corde del regista. Magnificamente servito dal protagonista Fiennes e da Miranda Richardson, che dà corpo e volto a entrambe le donne della tragedia.
Spagna 1944. L’esercito franchista sta piegando le ultime frange di resistenza alla “normalizzazione” del paese, ormai quasi totalmente sotto il controllo di Franco. Carmen, una giovane vedova, ha sposato Vidal, un capitano dell’esercito, e lo raggiunge assieme alla figlia dodicenne Ofelia. La bambina soffre per la presenza dell’arrogante patrigno e cerca di aiutare la madre che sta affrontando una gravidanza difficile. Il suo rifugio è costituito dal mondo delle fiabe che si materializza con la presenza di un fauno che le rivela la sua vera identità. Lei è la principessa di un regno sotterraneo. Per raggiungerlo dovrà superare tre prove pericolose. Guillermo Del Toro lavora ormai stabilmente su due fronti. Su quello hollywoodiano (vedi Blade 2) prova a ‘inserire caviale negli hamburger’, come ama dire. Si permette di rinunciare alla chiamata per Harry Potter e il prigioniero di Azkaban per completare il progetto di Hellboy e poi torna ai suoi amati racconti che rileggono la realtà storica in chiave fantasy-horror. Il franchismo in modo particolare lo appassiona in quanto messicano cresciuto sotto il tallone di una nonna ultraconservatrice in materia religiosa. Senza i mezzi delle megaproduzioni statunitensi ma con un’ accuratezza e sensibilità che spesso a quelle dimensioni produttive finiscono con lo sfuggire, Del Toro ci parla di soprusi e di innocenza, di ricerca di un mondo ‘altro’ in cui trovare la pace senza però rinunciare alla propria integrità di essere umano in formazione. Un film per giovani-adulti e per adulti-giovani il suo, meno facile da ‘vendere’ a un pubblico ben definito ma, anche per questo, più interessante.
Lena Nyman, la protagonista, intervista personalità quali Gustavo di Svezia o Martin Luther King e gente della strada per cogliere i diversi aspetti della società presente e futura e ironizzare sulle contraddizioni della socialdemocrazia, sulla presunta libertà di cui godiamo, sul Terzo Mondo, sui costumi sessuali del suo paese. Tra una considerazione e l’altra, Lena, che si prepara a girare un film, proprio in base a queste interviste, si innamora di un uomo che ha già una compagna e una figlia, lo abbandona e lo riprende.
Regista alla ricerca di un personaggio femminile e di una storia ha due rapporti successivi con due giovani donne, l’aristocratica Mavi e la borghese Ida. Ne esce due volte sconfitto. Più che crisi esistenziale, si hanno qui conflitti di sentimenti che hanno radici concrete: differenze di età, di classe, di educazione. È il più concreto film di Antonioni, quello in cui c’è maggiore spazio alle emozioni, al comportamento, alla fisicità. Il più parlato anche (Gérard Brach in sceneggiatura con l’apporto di Tonino Guerra), il più ironico e il più sereno anche se di una contristata serenità, puntato sui personaggi più che sul loro rapporto con l’ambiente e il paesaggio.
La famiglia Lisbon, composta dai genitori e da cinque ragazze fra i 13 e i 17 anni, vive in una cittadina dell’Oregon. Le cinque sorelle sono tutte molte belle e affascinanti ed esercitano sui ragazzi del vicinato un fascino irresistibile. Tutto cambia quando la più giovane, Cecilia, si suicida buttandosi dalla finestra.
Con un passato familiare (sette sorelle!) che non passa, il goffo Barry coabita nella San Fernando Valley (California) con una pacata nevrosi che ogni tanto scarica in solitarie esplosioni di violenza. Nell’amore per l’inglesina Lena trova la forza di uscire dalla sua autistica apatia per affrontare dei ricattatori. E la vita. Dopo l’ambizioso, magnificato e sopravvalutato Magnolia P.T. Anderson abbassa la mira sul registro leggero con una commedia “sbilanciata, asimmetrica, deliberatamente obliqua rispetto ai canoni del genere” (P. Cherchi Usai). L’asimmetria non sta nel plot lineare e prevedibile come sono le favole d’amore, ma nel grottesco stralunato della prima mezz’ora e negli incidenti di percorso. Il sospetto di un esercizio di bravura fine a sé stesso è fondato, ma si deve ammirarne il brio intelligente, anche nella direzione della recitazione: riuscire a rendere buffo e godibile Sandler, divo TV espressivo come un paracarro, non è impresa da poco.
Settembre 1967, la compagnia Bravo 2 americana agisce in Vietnam vicino al confine con la Cambogia. Tra i soldati c’è anche il nuovo arrivato Chris Taylor, partito volontario “perché non trovavo giusto che a combattere fossero solo i poveri o gli uomini di colore”. Al suo fianco ci sono il brutale e cinico sergente Bob Barnes e il più comprensivo e umano sergente Elias Grodin, che combatte già da tre anni, in continua lite sul da farsi. Il soldato è così iniziato alle marce estenuanti nella giungla, alle trincee da scavare, alle notti di guardia, alle imboscate dei vietcong e alle droghe per sostenere le atrocità. Diventato amico di Grodin, vendicherà lui e le tante crudeltà inflitte dall’altro ufficiale agli abitanti dei villaggi.
Ho rivisto questo film dopo tanti anni e mi ha colpito come e più della prima volta. Capolavoro. Willem Dafoe in stato di grazia.
Diabolik nacque da un’idea di Angela Giussani che, osservando tutti i giorni i pendolari che transitavano per la Stazione di Milano Cadorna (vicino alla quale viveva), ebbe l’intuizione di realizzare un fumetto con un formato “tascabile”, cioè che si potesse facilmente leggere aspettando il treno e poi in viaggio, per riporlo infine comodamente “in tasca”. Per capire i gusti dei suoi potenziali clienti, Angela condusse un’indagine di mercato da cui scaturì che molti in viaggio leggevano romanzi gialli (secondo un’altra versione, l’intuizione le venne per caso dopo aver trovato su un treno un romanzo di Fantomas). Nasce così il “formato Diabolik” (12 x 17 cm)[2][3], poi ripreso da molte altre pubblicazioni del genere, formato che contribuirà al successo nel tempo di questo personaggio dei fumetti. Il primo numero, uscito il 1º novembre1962 portava il titolo Il re del terrore. Diabolik è un ladro spietato e quasi sempre vincente. Fidanzato inizialmente con Elisabeth Gay, nel terzo numero della serie incontra la bellissima Eva Kant, che diventerà la sua compagna di vita; il loro costante scopo è rubare denaro e gioielli. Non si fanno scrupoli morali, in quanto spesso le vittime sono ricche famiglie, banche o altri personaggi criminalmente arricchiti. Agiscono sempre con estrema sicurezza e freddezza. Il ricavato serve per vivere una vita agiata e per finanziare i nuovi e sofisticati metodi per le future rapine, spesso tecnologicamente al limite dell’irreale ma di grande impatto emotivo. L’incontro di Diabolik con Eva ammorbidirà nei successivi numeri il carattere, pur sempre forte, del “re del terrore”, il quale da spietato e crudele ladro assassino diventerà un personaggio via via più umano, contraddistinto da un suo particolare senso morale. Questo anche naturalmente per assecondare il favore del pubblico del fumetto col trascorrere degli anni. Eva Kant, cosa molto particolare per un fumetto nato negli anni sessanta, diviene via via meno sottomessa al partner, e il suo aiuto si rivela indispensabile e apprezzato per il protagonista. Quanto alle origini del personaggio, su di esse fa una qualche luce il n. 5 (107) del 1968, il celebre Diabolik, chi sei?: unico sopravvissuto di un naufragio, giunse in fasce su un’isola fuori delle normali rotte, fu allevato dagli uomini del malvivente King e da loro apprese le più svariate tecniche criminali. Diventato adulto, uccise King e fuggì dall’isola con il tesoro della banda, adottando il nome di una feroce pantera nera a cui King lo aveva paragonato.
Inizia la sua carriera in oriente, nel Deccan. Qui viene salvato da un contrabbandiere di nome Ronin ed entra a far parte della scuola di quest’ultimo, dove gli vengono insegnate numerose tecniche che in seguito faranno parte della sua attività, come i mille trucchi che utilizza per seminare i nemici, il lancio del pugnale e le arti marziali. Inoltre, in questa scuola adotterà il famoso costume nero. Poco tempo dopo la scuola viene distrutta e tutti gli allievi e i maestri, compreso Ronin, vengono uccisi da Walter Dorian, un criminale di Clerville sosia di Diabolik. Diabolik, unico sopravvissuto, lo ucciderà, in apparenza, e s’impossesserà della sua Jaguar e di tutte le sue proprietà, assumendo l’identità di Walter Dorian. Sempre in Oriente avvenne il primo incontro tra lui e Ginko. L’ispettore, sulle tracce di trafficanti di droga, avrà il primo faccia a faccia col criminale e in quel momento inizierà la loro eterna sfida. Poco tempo dopo, Ginko lo catturò, senza sapere che il criminale indossava una delle sue maschere. Diabolik fuggì subito dopo. Il primo colpo, raccontato nel primo episodio della serie, Il re del terrore, vede come vittime la famiglia Garian. Con un abile gioco di maschere e intrighi, Diabolik, alias Walter Dorian, rovina l’intera nobile casata. Farà la prima apparizione Gustavo Garian, che nei primi numeri sarà una sorta di assistente di Ginko. Nel primo numero facciamo anche la conoscenza di Elisabeth Gay, la prima ragazza di Diabolik, bella ma molto ingenua, che crede che il suo amante sia un ricco uomo d’affari. Sarà Elisabeth a scoprire la vera identità di “Walter” e a denunciarlo nel terzo numero, L’arresto di Diabolik. Sempre nel terzo numero fa la sua prima apparizione Eva, che, dopo la denuncia di Elisabeth, salva il ladro dalla ghigliottina, facendo giustiziare un suo fastidioso pretendente.
Si intreccia alla rievocazione di un tragico episodio storico, l’eccidio alle Fosse Ardeatine, una vicenda di fantasia imperniata sul furto di un prezioso quadro del Masaccio.
Nel 1942 tenente americano è aggregato a un reparto inglese che, in un’isola delle Ebridi, deve distruggere una stazione radio giapponese. Lunga, pericolosa fuga finale. Per il cinico Aldrich non è mai stato tempo d’eroi. Di giocatori, caso mai. Qui la guerra assomiglia al football americano. La 1ª parte è vigorosa e appassionante.
Lorenzo, gay spavaldo, Blu, disinibita provocatrice, e il bel tenebroso Antonio sono i 3 diversamente diversi di una III liceo di Udine. Bollati dai compagni come “il frocio”, “la troia” e “il ritardato”, fanno comunella e gli rendono pan per focaccia. Ma Lorenzo s’innamora di Antonio, che invece ama Blu, che però è fidanzata con un universitario. Cotroneo ha messo in immagini il suo romanzo omonimo del 2010, modificandolo nella sceneggiatura con l’aiuto di Monica Rametta. Ne è sortito un teen movie musicale e grottesco che ha il pregio di documentare e denunciare l’omofobia, il sessismo e il bullismo che allignano nelle scuole italiane, ma il difetto di abbandonarsi a un estetismo eclettico che accumula, senza amalgamarli, generi, riferimenti e stili eterogenei. La gagliarda e onnipresente colonna sonora include i Blondie, i New Order, Lady Gaga, Mika. Originali coreografie di Luca Tommassini, fotografia impeccabile di Luca Bigazzi.
Organizzazione segreta offre, dopo la morte apparente dell’interessato, una nuova vita e una diversa identità. Un industriale insoddisfatto accetta di sottoporsi al trattamento. È, in una certa misura, il patto di Faust aggiornato alla moderna tecnologia. L’idea originale è di un romanzo di David Ely, sapientemente sceneggiato da Lewis John Carlino. Come con la fantapolitica di Va’ e uccidi (1962), Frankenheimer è a suo agio con la fantasociologia; gli dà una mano con un suggestivo bianconero il vecchio James Wong Howe, operatore di merito. Finale allucinante, attaccare le cinture.
Un’anziana donna delle pulizie vedova sposa un immigrato marocchino, di vent’anni più giovane. Doppio scandalo. Non è soltanto un film sul razzismo quotidiano e sulla normalità, ma anche sull’amore e la felicità. Il personaggio che più interessa non è Alì, trasparente e monolitico nella sua araba semplicità di cuore e di comportamento, ma Emmi cui l’amore non basta a farle superare i pregiudizi, l’educazione piccoloborghese, l’innata tedescheria. L’impasto di melodramma e di critica sociale funziona perché il primo è al servizio della seconda come la circolazione del sangue alimenta un organismo. Tenero, asciutto, un po’ schematico. Noto anche come Tutti gli altri si chiamano Alì . Premiato a Cannes 1974 da FIPRESCI e OCIC, a Chicago e in Germania (Brigitte Mira).
Nel 1946 in una Vienna devastata dalla guerra e divisa in quattro zone di occupazione, lo scrittore americano di western Holly Martins (Cotten) assiste ai funerali dell’amico Harry Lime (Welles), ma è veramente morto? Inseguimento finale nelle fogne della città. Scritto da Graham Greene che dalla sceneggiatura trasse un romanzo (1950), è uno di quei film – ormai un classico del cinema britannico – che nascono da uno straordinario concorso di circostanze: un bel copione, un regista quarantenne nella sua stagione di grazia, una tela di fondo – Vienna – di grande suggestione grazie al bianconero di taglio espressionistico di Robert Krasker, il romantico commento musicale su cetra di Anton Karas, interpreti funzionali, un perfetto ingranaggio d’azione in cui la tecnica del giallo si coniuga con una sottile indagine psicologica. Il vero tema del film è la morte, come in La signora di Shangai. E poi Welles: c’è un salto di qualità tra la breve parte che riguarda Harry Lime e il resto. Non sembra dubbio che abbia dato più di un suggerimento a Reed; è certo che collaborò ai dialoghi. Sua è la celebre battuta sull’Italia del Rinascimento e la Svizzera. Per molti anni Lime divenne un sinonimo di Welles che portò il personaggio in una serie radiofonica di 39 puntate: Le avventure di Harry Lime. Palma d’oro a Cannes e Oscar per Krasker. Esiste anche in versione colorizzata. Ridistribuito nel 2000 in edizione originale con sottotitoli italiani.
Calcutta, anni ’30. Squattrinato e senza un lavoro fisso, con ambizioni letterarie ancora insoddisfatte, Apu (Chatterjee) si adatta a un matrimonio di convenienza, sposando la bella Aparna (Tagore), cugina del suo amico Pulu (Mukherjee), promessa sposa di un folle. Dopo qualche mese di felicità, Aparna va a partorire in casa di sua madre, ma muore di parto. Soltanto cinque anni dopo, si decide a far visita al piccolo Kajal (Chakravarty). 5° film di Ray, grande cineasta bengalese, chiude la cosiddetta “trilogia di Apu”, composta da Il lamento sul sentiero e Aparajito ( L’invitto ), tratta dal romanzo Aparajita di Bibhutibhusan Banerjee. In ciascuna delle tre tappe Apu ha perduto o abbandonato le persone più amate: la sua è una saga lirica del dolore e della frustrazione. Influenzato da Jean Renoir, ma anche dai sovietici Dov82 enko e Donskoj (e dalla narrativa russa che è il loro retroterra), Ray sta in bilico tra pessimismo e serenità con una rappresentazione della realtà che è contemplativa, ma attenta ai particolari, al paesaggio e soprattutto agli esseri umani con una maturità che rimanda ai film giapponesi di Ozu e di Mizoguchi.
Monumentale, spettacolare, costosissima saga tratta dal romanzo di Wouk, di una famiglia di ufficiali della Marina americana allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sullo sfondo della storia si dipanano le vicende d’amore, d’avventura, di carriera dei numerosissimi personaggi. Ne è stato prodotto un sequel, sempre tratto da Wouk, intitolato Ricordi di guerra
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