Alla fine del XVIII secolo, una ragazza irlandese di nome Mary Yellen (Maureen O’Hara), rimasta orfana, lascia l’Irlanda per la Cornovaglia. Lì raggiunge “La taverna della Giamaica”, locale malfamato gestito dalla zia Patience e dal marito Joss. Il giudice di pace della contea è Sir Humprhey Pengallan (Charles Laughton), tipo ambiguo e mellifluo che si invaghisce subito di lei: Mary invece non lo ricambia e prova per lui solo sentimenti di ripugnanza e timore.
Nonostante il confronto tra Complotto di famiglia e capisaldi quali “Psycho” e “Gli uccelli” resti alquanto impraticabile, il genio di Hitchcock appare inesauribile anche in questa sua opera finale. Sir Alfred dà l’addio al cinema (senza premeditazione, perché prima di lasciarci stava lavorando ad un nuovo progetto dal nome The short night) con il suo 53° film. Era il 1976.
L’affascinante Maddalena Paradine (Alida Valli) viene accusata di aver ucciso il marito. L’avvocato Keane (Gregory Peck) assume la sua difesa e si innamora di lei, mettendo a repentaglio il suo matrimonio e la sua carriera, ma nel corso del processo scopre che la donna ha avuto una relazione con lo stalliere di Villa Paradine (Louis Jourdan). Nel frattempo, il giudice Horfield (Charles Laughton), che presiede il processo, cerca di conquistare la moglie di Keane, ma non ha successo. L’avvocato Keane mette sotto pressione il giovane Latour, amante della vedova, fino a fargli ammettere la relazione clandestina. A causa del suo suicidio, la signora Paradine decide di vendicare la morte dell’amante accusando l’avvocato, in aula, di essersi innamorato di lei: la situazione per Keane si complica così in maniera inesorabile… Melodramma giudiziario fortemente voluto dal produttore Selznick, che contribuì anche alla sceneggiatura e impose a Hitchcock l’algida Alida Valli al suo primo film hollywoodiano – il regista avrebbe invece voluto riportare sullo schermo Greta Garbo – Il caso Paradine presenta un intreccio fortemente intricato con una seconda parte tutta ambientata in tribunale. Da segnalare la notevole interpretazione dell’immenso Charles Laughton nei panni dell’ambiguo giudice.
Bob Rusk, un commerciante di verdura londinese, preso da raptus, violenta le donne e le strangola. Tuttavia i sospetti cadono su un ex pilota della Raf, uno sbandato. Alcuni indizi portano, però, a fermare il colpevole, mentre questi si sta disfacendo del corpo della sua terza vittima.
Sofferente di vertigini dopo un incidente in servizio, John “Scottie” Ferguson lascia la polizia e accetta di lavorare per un vecchio compagno di scuola che gli chiede di sorvegliare la moglie Madeleine che in ricorrenti stati di incoscienza sembra posseduta dallo spirito di Carlotta Valdes, sua bisnonna morta suicida un secolo prima. Ferguson resta affascinato dall’infelice donna e quando è costretto a intervenire per salvarla da un tentativo di suicidio in mare tra i due ha inizio una storia d’amore. Ma una tragedia sta per sconvolgere le vite di entrambi.
Fotoreporter costretto all’immobilità per una frattura alla gamba inganna il tempo spiando i vicini. Convinto di avere scoperto un assassino nella casa dirimpetto, riuscirà, con l’aiuto della fidanzata, a far luce su un delitto. E a rompersi l’altra gamba. Tratto da un racconto di Cornell Woolrich e sceneggiato da J.M. Hayes (che per Hitchcock ha scritto anche Caccia al ladro , La congiura degli innocenti e L’uomo che sapeva troppo ), è un classico (per alcuni “il” classico) di Hitchcock, uno dei suoi film più armoniosi e meglio costruiti, un capolavoro di economia e di ingegnosità che agisce come una pentola a pressione: nulla viene disperso in pezzi di bravura e in virtuosismi. “È il film dell’indiscrezione, dell’intimità violata e sorpresa nel suo carattere più ignobile, della felicità impossibile, della biancheria sporca che si lava in cortile, della solitudine morale: una straordinaria sinfonia della vita quotidiana e dei sogni distrutti” (F. Truffaut). 3 nomination agli Oscar: sceneggiatura, regia, fotografia di R. Burks.
Le interviste impossibili è il titolo di un programma della seconda rete radiofonicaRai andato in onda nel 1974 (primo ciclo) e nel 1975 (secondo ciclo) e curato da Lidia Motta, in cui uomini di cultura contemporanei reali fingono di trovarsi a intervistare 82 fantasmi redivivi di persone appartenenti a un’altra epoca, impossibili da incontrare nella realtà, da qui il titolo. Oggi, in ambito letterario, il genere viene identificato come “Colloquio fantastico postumo”.
Italo Calvino inviato in una pittoresca vallata nei dintorni di Düsseldorf interroga l’uomo di Neanderthal sui motivi di tanta fama inattesa; Edoardo Sanguineti si imbatte al telefono in Francesca da Rimini e la scambia per la centralinista del secondo cerchio dell’Inferno; Umberto Eco si risolve a penetrare nell’animo del presidente dell’Associazione mutilati di guerra della repubblica romana, Muzio Scevola, e viene accolto così: Ave! Morituri te salutant! Erano i primi anni settanta e negli studi radiofonici succedevano cose del genere quando la Rai rivolgeva ad alcuni tra i maggiori scrittori italiani il singolare invito a incontrarsi, davanti a un microfono, con personaggi celebri vissuti cento, mille o duemila anni fa. Alle risposte da loro immaginate presteranno la voce attori come Carmelo Bene, Paolo Poli, Laura Betti, Romolo Valli, Paolo Bonacelli, e la serie delle «Interviste impossibili» diventerà un piccolo classico, replicato più volte e sempre ricordato come esempio di una condizione ideale di libertà creativa. Gli scrittori intervistano la storia secondo le strategie molto diverse di un gioco fantastico, dove il più delle volte le domande sono rivolte in primo luogo a loro stessi, come ha notato Andrea Camilleri, che delle «Interviste impossibili» è stato spesso regista oltre che uno degli autori, facendo emergere così il quadro semiserio di un’epoca attraverso le ossessioni intellettuali dei suoi protagonisti di fronte allo specchio della storia.
Tony D’amato (Pacino) allenatore di football americano, viene ritenuto ormai al tramonto. La nuova “boss” della dirigenza (Diaz) vorrebbe mandarlo via, ma non è facile, perchè Toni è molto amato dalla squadra. Entriamo così in quel mondo: la violenza nel campo, le ambizioni e le crisi dei giocatori, gli intrighi di tutti. Alla fine vince Pacino – anche perché la squadra continua a vincere – e non trascura di prendersi la sua vendetta finale. Il solito ultimo, e penultimo, Stone: non può che affidarsi alla forma e al linguaggio, coi quali riesce ancora, parzialmente, a nascondere la scarsa ispirazione. Il film è comunque aggressivo e spettacolare e tutti quei divi, aiutano.
Da un romanzo di Alistair MacLean. Isola di Keros. Commando di partigiani deve impadronirsi di due cannoni messi in posizione strategica dai tedeschi. Ma c’è un traditore. Uno dei pochi film sulla 2ª guerra mondiale che ebbe un grandissimo successo di pubblico. Ambizioso con molte sequenze di forte suspense, è un po’ appesantito da dialoghi spesso retorici e filosofeggianti. Ottimo cast. 4 nomination, solo un Oscar agli effetti speciali.
La giovane danzatrice americana Susie Bannion arriva nel 1977 a Berlino per un’audizione presso la compagnia di danza Helena Markos nota in tutto il mondo. Riesce così ad attrarre l’attenzione della famosa coreografa Madame Blanc grazie al suo talento. Quando conquista il ruolo di prima ballerina Olga, che lo era stata fino a quel momento, accusa le dirigenti di essere delle streghe. Man mano che le prove si intensificano per l’avvicinarsi della rappresentazione, Susie e Madame Blanc sviluppano un legame sempre più stretto che va al di là della danza. Nel frattempo un anziano psicoterapeuta cerca di scoprire i lati oscuri della compagnia.
Una giovane attraente tedesca, sposa di guerra, attraverso il mercato nero e la prostituzione riesce a diventare una brillante donna d’affari, rimanendo sempre leale al marito prima prigioniero, poi detenuto. È uno dei migliori, e il più armonioso, film di Fassbinder, denso di avvenimenti e di personaggi, pieno di drammaticità e di sarcasmo, una ricca parabola sul “miracolo” tedesco. Schygulla memorabile. È uno dei quattro personaggi femminili (con Lilì Marlene, Lola, Veronika Voss) attraverso i quali Fassbinder ha composto una quadrilogia sulla Germania nazista e postnazista.
1929, in una città americana dell’Est: un potente e corrotto pezzo da 90 si scontra, a causa di una donna, con il suo amico e consigliere, mentre è in corso una lotta acerrima con un boss della malavita italoamericana. Film violento ma raffreddato, con risvolti di grottesco umorismo, dove l’intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata è un dato di fatto quasi scontato, organico e non patologico. Non c’è un solo personaggio positivo, e ciascuno ha il suo lato debole. Il crocevia di Miller nel titolo rimanda al bosco che è il luogo della messa a morte, ma anche al fascino tortuoso di una messa in scena dove tutto – dalla fotografia di Barry Sonnenfeld, futuro regista, alle musiche irlandesi di Carter Burwell – concorre a un esito di alta coerenza stilistica. Se non il migliore, è il più armonioso e compatto dei fratelli Joel e Ethan Coen. Apparizione di Sam Raimi – abbattuto a colpi di mitra – e comparsa non accreditata – una segretaria – di Frances McDormand, futuro Oscar per Fargo .
Un bambino scopre in un bosco il cadavere di un uomo che sarà sotterrato e dissotterrato quattro volte da quattro adulti con la coscienza sporca. Nella cornice dei paesaggi autunnali del New England la più deliziosa delle commedie nere di A. Hitchcock che si diverte a sovvertire il comportamento logico dei personaggi. Un grottesco diluito in un bicchiere di allegro cinismo. Da un romanzo di Jack Trevor. Straordinario esordio di S. MacLaine.
Michael Mann si conferma ancora una volta fra i migliori registi d’azione e presenta alla Mostra del Cinema di Venezia, un lungometraggio con continui cambi di ritmo che si svolge, temporalmente, tutto in una notte. Los Angeles, atmosfera sincopata. Max, tassista modello, compie una corsa con un procuratore donna che avrebbe dovuto discutere un caso in tribunale la mattina successiva. Immediatamente dopo, un nuovo cliente, Vincent, che gli fa una proposta allettante,accompagnarlo per l’intera notte in cambio di 700 dollari. Max si fa convincere, senza sapere che da quel momento avrebbe iniziato un viaggio allucinante. Vincent è infatti un killer di professione che deve regolare i conti con cinque persone, una delle quali, a sua insaputa, sta a cuore al conducente di taxi. Difficile dichiarare se l’elemento più coinvolgente di questo riuscito action movie sia quello visivo o quello della sceneggiatura. I primi piani strettissimi, la notte losangelina, il montaggio serrato (spettacolare la scena della discoteca con un incessante e ipnotica musica martellante) e l’uso del digitale che rende le immagini notturne più nitide con un conseguente iperrealismo, si fondono con i dialoghi ironici, a volte tarantiniani, fra Vincent e Max, e che lentamente assurgono a una sfida sulle orme delle regole dell’arte della guerra di Sun Tzu. Tom Cruise e Jamie Foxx si affrontano a viso aperto diretti da un nuovamente grande Mann, saggia mano del cinema adrenalinico di classe.
La vita di Gesù, tratta dal Vangelo e da alcuni racconti apocrifi. Questo film è stato realizzato per la televisione italiana (diviso in 6 puntate) ed è stato un avvenimento d’eccezione, seguito contemporaneamente in quasi tutto il mondo.
Jong-su è un aspirante scrittore che vive di espedienti. Quando incontra per caso Hae-mi non la riconosce, ma la ragazza si ricorda di lui e lo persuade a prendersi cura del suo gatto. Jong-su si innamora, ma Hae-mi parte per l’Africa: al suo ritorno è accompagnata dal misterioso e facoltoso Ben.
I ritorni artistici dopo un lungo silenzio generano enormi aspettative e amplificano i rischi. In qualche caso, raro, permettono di valutare appieno il peso di un artista e gli regalano il tempo necessario perché questi liberi il suo estro in un’opera memorabile.
Lee Chang-dong (Poetry, Secret Sunshine) non è nuovo a prendersi delle pause, ma Burning meritava tutto il tempo che il regista si è preso, ovvero otto lunghi anni di lontananza dalla macchina da presa. Un film-enigma, in cui la soluzione è plurima o forse inesistente, una contorta macchinazione che accumula menzogne su menzogne per dare senso a ciò che non ne ha. La natura sfuggente e non lineare di Burning diviene la perfetta fotografia della contemporaneità, l’unico modo di raccontare un presente complesso e terribile, di difficile lettura.
Una giornata dell’esistenza di Monsieur Oscar, che di professione passa da una vita ad un’altra, da un personaggio ad un altro, scortato ad ogni appuntamento da una limousine bianca, guidata lungo le strade di Parigi da Céline, misteriosa signora bionda. Un’esistenza stimolante e distruttiva, che Oscar sostiene di condurre ancora “per la bellezza del gesto”, che gli impone di essere creativo ogni volta, e di quel motore dell’azione di cui il mondo sembra sempre più fare a meno. Nei differenti appuntamenti di Oscar, che lo vedono affarista finanziario, vecchia mendicante, performer per realtà virtuali, signor Merde, killer dei bassifondi, vecchio morente, padre di famiglia e altro ancora, Carax esplora diversi generi ma soprattutto entra nel cinema che ha amato e che ama, da Tod Browning a Franju, da Cocteau a Bertolucci, da Charles Bronson a Vidor, da Kubrick a René Clair. Ci entra attraverso una porta invisibile com’è una sforbiciata di montaggio, o come quella che lo stesso Leos Carax, all’inizio del film, scova nella scenografia della sua stanza da letto e che lo porta, appunto, dentro una sala cinematografica. Dopo alcuni sbandamenti, più o meno clamorosi, Carax è orgogliosamente tornato ai livelli d’invenzione e di passione di Rosso Sangue, non a caso un altro film fatto di fantasmi di celluloide, noir e pop, e un altro viaggio verso la morte. Perché Oscar è tutti e nessuno, condannato alla solitudine così come alla presenza in scena, un clown sofferente e un vampiro: un (grande) attore, insomma. Come Denis Lavant, che gli presta volto e corpo: un punto fermo per il regista, che non per niente è stato condiviso anche da Harmony Korine, che ci ha visto Chaplin. “Intello” sì, ma comunque sempre più viscerale che cerebrale, Holy Motors va salutato come un film evento, perché se il cinema è morto questa è la prova che il suo culto è più vivo che mai e che possiamo ancora essere sorpresi e illuminati. Notturno e tristissimo, anche nelle ore diurne, il film non è un monologo interiore, nonostante il regista viva di cinema, ma, al contrario, cerca disperatamente di instaurare un dialogo col pubblico della sala e di scuoterlo dall’apatia (la platea evocata all’inizio è immobile, semidormiente), senza prediche, con le sole armi del pensiero e della dissacrazione. Meglio dadaisti che paranoici, urla in silenzio Carax, meglio primitivi che digitalizzati. Straordinari anche i luoghi delle riprese (la villa-nave dell’uomo d’affari, l’orto sul tetto della Samaritaine e l’interno “storico”) e la disponibilità che il regista ha ottenuto da Eva Mendes.
Carl Allen è un impiegato divorziato orgogliosamente chiuso nella sua solitudine e insensibile alle richieste altrui. I clienti gli chiedono un prestito e lui lo nega, gli amici gli chiedono compagnia e lui si tira indietro, cercando di farsi bastare un dvd sul divano. Si protegge dai colpi che la vita gli ha dimostrato di saper sferrare, ma quanto altro si preclude così facendo? L’incontro con un ex collega lo convince a partecipare ad un seminario di “positività”, in cui il guru di turno lo esorta a rivoluzionare la sua vita rispondendo di sì ad ogni richiesta. Improvvisamente, si ritrova ad apprendere il coreano, a prodigarsi per un barbone, a presenziare alle feste a tema del capoufficio e ad accettare il passaggio in scooter di una sconosciuta di nome Allison.
Bruce Nolan è un giornalista TV che sottovaluta quel che possiede (simpatia, capacità di divertire il prossimo, una fidanzata giusta) e si sente perseguitato dalla sorte. Stanco dei suoi lamenti, il Padre Eterno – con l’aria sorniona e affabile di un M. Freeman biancovestito – gli dà l’occasione di prendere il suo posto di onnipotente per una settimana. Scritta da 3 sceneggiatori tra cui Steve Oedekerk ( Ace Ventura 2 ) e diretto da T. Shadyac che aveva già diretto J. Carrey in Bugiardo bugiardo (film con la stessa struttura narrativa), è una commedia di moda New Age che sfrutta soltanto in piccola parte le potenzialità dello spunto di partenza e quelle del suo talentoso protagonista. Carrey risulta un po’ troppo addomesticato, ripetitivo e prevedibile, ma si può capirlo: doveva rimediare agli insuccessi commerciali delle sue ultime impegnative prove di Man on The Moon e The Majestic . Inevitabile omaggio a F. Capra con citazione.
I colori forti del profondo sud statunitense, fanno da contrasto alla disperazione di tutti i giorni, che vive sul paradosso di un sogno letterario. Eliot e Frost (fra gli altri) sono la fonte di ispirazione e il nutrimento spirituale per sopravvivere al giorno che passa, e una speranza futura per chi ha ancora un’esistenza da costruire. Nella New Orleans dei giorni nostri si consumano il dramma, la solitudine, le relazioni familiari di Bobby Long, alcolizzato ex professore universitario, Lawson, aspirante scrittore fallito, e Purslane, ragazza senza sogni, incontrata a causa della morte di Lorraine, madre odiata e donna che ha segnato indelebilmente la vita di Bobby. Il film di Gabel, vive nel contrasto e nella convivenza fra intellettualismo tinto di blues e speranze diluite dal tempo, e delinea i caratteri dei protagonisti, vera forza del lungometraggio, nelle loro contraddizioni ormai radicate. Nella seconda parte, A love song for Bobby Long, si perde nel voler dare troppe spiegazioni e giustificare banalmente la solidità dei rapporti in un non necessario lieto fine. Grande John Travolta nell’esecuzione della canzone del titolo.
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