Sposato da poco con Louise, Jimmy si mette in società con Jeff, ex campione di rodeo. Ben presto i facili guadagni danno alla testa a Jimmy e Jeff s’innamora della donna. Su una bella sceneggiatura di Horace McCoy (e David Dortort, un vecchio cowboy) Ray descrive con efficacia quasi documentaristica il mondo del rodeo, ma il nucleo del racconto è nel rapporto tra i tre personaggi principali e soprattutto nel ritratto di Jeff McCloud (un ottimo Mitchum), tipico eroe crepuscolare, desolato ma non disperato, che il regista descrive con occhio fraterno e lucido.
Film sperimentale realizzato da Nicholas Ray insieme ai suoi studenti della New York State University di Binghamton, girato in vari formati (35mm, 16mm, video) e con l’ausilio di diverse macchine da presa. Ray e i suoi allievi si esprimono sullo schermo all’interno di una ‘cornice’ fotografica intermittente, eseguendo a tratti un copione già scritto, alternato a momenti di improvvisazione. Ne esistevano due versioni ma sfortunatamente la seconda, quella definitiva, è andata perduta.
Protagonista è Inuk, un esquimese. Si sposa, ha un figlio e un giorno uccide un bianco che ha rifiutato l’offerta della moglie da parte sua, secondo un’usanza degli esquimesi. Dovrebbe essere arrestato e due poliziotti lo trovano. Uno muore di freddo, l’altro viene salvato da Inuk. Il poliziotto dirà che l’assassino è morto e l’esquimese potrà continuare a vivere la sua difficile esistenza, sempre in lotta con la natura.
In Arizona, dopo la guerra civile, Vienna, proprietaria di un saloon-casa da gioco, è malvista dai notabili della zona perché dà ospitalità a una banda di fuorilegge. Si fa aiutare da Johnny, pistolero-chitarrista già suo amante. Incendio e duello finale tra due donne. Giudicato troppo eccentrico ed eccessivo quando uscì, è tenuto oggi per un capolavoro di lirismo barocco e di graffiante parodia sul maccartismo, la “caccia alle streghe” comuniste, e sul puritanesimo repressivo. Il fascino del film, scritto da Philip Yordan, scaturisce dalla sua esaltazione poetica della libertà e dell’amore, dalla dialettica opposizione delle forze in campo, dal suo cifrato simbolismo sessuale. Tutto è eccessivo nel film, anche il Trucolor di Harry Stradling. Caratteristi in folla: Ernest Borgnine, John Carradine, Royal Dano, Ben Cooper.
L’anziano e amareggiato Matt fa amicizia col giovane e fragile Davey. Un equivoco li fa scambiare per rapinatori di un treno e, ferito nella sparatoria, Davey rimane storpio. Tempo dopo, eletto sceriffo da chi voleva linciarlo, Matt nomina suo vice Davey, ma la sua fiducia è mal riposta. È il 2° dei 3 western di J. Cagney e di Nick Ray che porta nel genere i suoi temi preferiti: la difficile pratica dell’amicizia; l’incomunicabilità tra le diverse generazioni (anche tra chi si ama); la seduzione negativa della violenza sulla giovinezza; la relatività della nozione di giustizia; la denuncia dell’intolleranza. “Sembra la tragedia degli equivoci… pessimista, in cui nessuno è mai quello che appare e colui che sembra maggiormente colpevole, il giovane Davey, è in realtà la prima vittima…” (A. Viganò).
Dal romanzo Thieves Like Us di Edward Anderson. Evaso dal carcere con due criminali e costretto a partecipare alle loro imprese, il giovane Bowie s’innamora di Keechie, nipote di uno dei due, e la sposa. Fuggono insieme, ma Bowie è ucciso dalla polizia. Nell’ultima scena, Keechie incinta legge una lettera del marito, si volta verso la cinepresa e dice: “I love you”. 1° film di Ray, prodotto da John Houseman per la RKO. Un noir di acceso romanticismo e di lirica tenerezza sullo sfondo di un mondo notturno, violento e ostile. Il regista trascura le scene d’azione per concentrarsi sulle figure dei due giovani “innocenti” e sulla loro estraneità all’ambiente. Rifatto da Altman con Gang (1974).
Un film di Nicholas Ray. Con James Mason, Barbara Rush Titolo originale Bigger than Life. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 95′ min. – USA 1956. MYMONETRO Dietro lo specchio valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Insegnante in una scuola di una cittadina di provincia usa il cortisone per curarsi l’artrite. Ma abusa del farmaco attraversando stati di euforia megalomaniacale. Ispirato a un fatto di cronaca, è un tipico melodramma degli anni ’50, ma condito da un’ironia e da soprassalti irrealistici che hanno la firma del regista, acuto nel fare del suo eroe piccoloborghese con manie di grandezza un Napoleone in sella a un cavallo a dondolo. Prodotto da J. Mason.
Storia d’amore sullo sfondo brutale del gangsterismo nella Chicago del 1933: un boss della malavita e il suo avvocato (zoppo) si contendono una ballerina. Insolito per la sua mistura tra l’universo figurativo del gangster movie e quello del musical (con 2 suggestivi numeri di danza). Sequenze da ricordare: la strage della banda rivale, la carneficina finale, la scena in cui Cobb spara contro la fotografia di Jean Harlow. E una Charisse più fulgida che mai.
Un film di Nicholas Ray. Con Cornel Wilde, Jane Russell Titolo originale Hot Blood. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 85′ min. – USA 1955. MYMONETRO La donna venduta valutazione media: 2,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Mike Torino (Adler), capo _ e malato terminale _ di una tribù di tzigani che hanno messo radici in una cittadina USA ai confini col Messico, combina il matrimonio di Stephen (Wilde), suo fratello minore destinato a succedergli, con la bella Annie Caldash (Russell) che, in realtà, è un’imbrogliona, ma s’innamora dello sposo riluttante. Più che la storia, scritta da Jesse Lasky Jr. per Columbia, contano il contesto, improbabile ma insolito e picaresco, e la mise en scène di N. Ray, il suo interesse per il folclore, l’etnologia e il musical. Lo mostrano il ballo in strada dell’opaco C. Wilde (probabilmente con controfigura) e la danza di fruste tra Wilde e J. Russell che conferma di essere, se ben guidata e convinta del personaggio, una brava attrice. Cinemascope di Ray June e musiche di Les Baxter. Restaurato.
XII secolo: la guerra tra i clan Minamoto e Heike impazza e il principe Yoshitsune, reduce da una vittoriosa battaglia navale, rientra alla capitale. Calunniato presso il fratello, lo shogun Yoritomo, Yoshitsune si trova costretto a fuggire, seguito da sei fedelissimi samurai. Per salvarsi dovranno attraversare il territorio nemico, senza rivelare la propria identità. Nel 1945 squassato dalla guerra appena conclusa, Kurosawa Akira riesce a confezionare tra mille difficoltà il suo primo jidai geki, un piccolo capolavoro che anticipa i temi del successivo La fortezza nascosta. Per far fronte alla scarsità di mezzi, un parco pubblico di Tokyo diviene una foresta e i cavalli spariscono dal copione in quanto irreperibili, senza contare le battaglie che il regista deve combattere con il doppio organo preposto alla censura, nipponico e statunitense. Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre riprende un classico del teatro Kabuki, e ancora prima del teatro N, sulla cosiddetta “beffa di Ataka” e ne fa una parabola sul potere e sul valore dell’uomo, che prevale su gerarchie e tradizioni costituite. L’uso dei primi piani e l’espressionismo della recitazione è figlio di un cinema ancora legato all’era del muto, ma l’efficacia delle performance attoriali non ne risulta affatto diminuita. Basta infatti un cenno del principe Togashi (interpretato da Susumu Fujita) per far capire che, nonostante la verità sui finti monaci sia trapelata, a vincere è la comprensione umana per il sacrificio di un samurai disposto a violare formalmente il codice pur di rispettarlo nella sostanza, arrivando a umiliare il proprio signore pur di metterlo in salvo. Onore e valore dell’individuo hanno così la meglio su dogmi insensati, secondo un tema che tornerà in molte opere del maestro giapponese. L’elemento peculiare de Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre, aggiunto da Kurosawa, riguarda il personaggio del facchino-giullare – interpretato dal comico Enoken – che funge da coro critico, con incursioni da protagonista nella vicenda: un idiot savant clownesco – altro topos dell’autore, basti pensare a Ran – contrapposto agli ieratici samurai-monaci, che intuisce prima di altri la natura delle cose e la asseconda con il suo buon cuore. Con un finale aperto e inatteso, che ne suggerisce un nuovo ruolo nell’intera vicenda.
Cinque minorenni sono responsabili di ferimenti, spaccio di droga, incitamento alla prostituzione nei pressi della Lincoln School. Ma sarà il professor Norris, al quale hanno violentato la moglie, ad ucciderli ad uno ad uno. Rifacimento, volutamente infedele, deIl seme della violenza diretto da Richard Brooks nel 1955. Negli anni Cinquanta, il prof. riusciva a tirare dalla sua la parte migliore della scuola. Ventisei anni dopo, non c’è posto per gli idealismi. I teppistelli s’ammazzano e basta, almeno così dice Lester.
A 8 anni da Classe 1984, Mark Lester ci riprova ma a differenza del precedente film dov’era dalla parte del professore che uccideva gli studenti ora fa vedere come è pericoloso usare mezzi drastici nei loro confronti. Il nome della scuola è cambiato da Lincoln a Kennedy, riferimento politico? Fatto sta che il preside, interpretato da McDowell, per aver disciplina chiede aiuto a un costruttore di robot. Una via di mezzo tra Arancia meccanica e Terminator, ma senza avere le qualità dei due modelli.
Il film è un esempio degli slasher a basso costo tanto in voga durante gli anni ottanta, come Halloween – La notte delle streghe e Venerdì 13; Quentin Tarantino lo ha definito il «miglior slasher di tutti i tempi»[1]. Durante la celebrazione di San Valentino nella città di Valentine Bluffs, un gruppo di operai rimane intrappolato in una miniera, ove un problema nelle condutture del metano provoca un’esplosione, in cui rimangono uccisi tutti i minatori. A sei settimane di distanza, l’unico sopravvissuto alla tragedia, Harry Warden, è impazzito a causa dei traumi psicofisici successivi all’accaduto. Dopo un anno di cure e corsi di rieducazione, Harry, fugge dalla clinica uccidendo alcuni dottori, lasciando un avvertimento scritto col sangue dei malcapitati; chiunque oserà festeggiare il giorno di San Valentino verrà brutalmente massacrato. A vent’anni esatti dai tragici eventi, alcune coppie di adolescenti decidono di festeggiare San Valentino dentro le miniere, dato che in città ogni rito e/o festa è proibita. Alla loro decisione di svago, seguiranno una catena di morte e omicidi sempre più cruenti e complessi.
Dopo un terremoto, in una cittadina americana si sviluppano misteriosi incendi. Viene anche notata l’esistenza di strani insetti che emettono vampate di fuoco causando numerose vittime. Uno studioso afferma che gli insetti appartengono a una specie preistorica.
La storia è incentrata su un gruppo di giovani adulti che rimangono bloccati su un’isola deserta, dove vengono perseguitati da un mostruoso aggressore.
Ellen Graham muore insieme ai suoi misteri. Mentre la figlia Anne elabora il lutto di una complicata figura materna, nella casa dei Graham avvengono strani episodi, che sembrano presagire un epilogo tragico. Basta un movimento di macchina, lento e avvolgente, tra i sinistri diorami assemblati dalla protagonista Anne Graham per far capire a cosa andremo incontro con Hereditary. A un dramma angosciante sui traumi di una famiglia di rara disfunzionalità e insieme a un ambizioso debutto, che guarda ai maestri del passato per generare nuovi shock.
Carrie (Sissy Spacek) è una ragazza timida e complessata, oppressa dalla madre pazza e bigotta (Piper Laurie) e ridicolizzata dalle compagne più furbe. Carrie però scopre di avere dei misteriosi poteri telecinetici e li usa per cercare una terribile e sanguinosa vendetta dopo essere stata ridicolizzata una volta di troppo al ballo della scuola, davanti a tutti. Il tema è classico dell’horror ed è un tema prettamente catartico: la vendetta dell’offeso, più assaporata dallo spettatore quanto più l’offeso è stato maltrattato nella prima parte del film.
Un film di Bela Tarr. Con Peter Berling, Mihaly Vig, Putyi Horvath, Erika Bok Drammatico, b/n durata 465′ min. – Ungheria, Germania, Svizzera 1994. MYMONETRO Satantango valutazione media: 3,81 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Diviso in 2 parti e in 12 capitoli per la durata di 7 ore e più, costato quasi 4 anni di lavoro (1991-94), tratto da un romanzo di László Krasznahorkai, adattato dall’autore col regista, è il più ambizioso dei film di Tarr, il narratore più estremo del cinema magiaro, attivo dal 1977. In un villaggio della pianura stepposa ungherese due gabbamondo, già dati per morti, convincono la popolazione a lasciare le proprie case e i loro risparmi, necessari a fondare una colonia collettiva dell’utopia. In cadenze allegoriche, anche se storicamente precise, è una satira antiautoritaria e, insieme, un apologo metafisico. Tema centrale: quelle che i padri della Chiesa cristiana chiamavano le figlie dell’accidia (filiae acediae), intesa come “la fuga dell’uomo davanti alle ricchezze delle proprie possibilità spirituali”: il torpore, il divertimento e soprattutto la disperazione, cioè la presuntuosa e compiaciuta certezza di essere già condannati alla rovina.(Leggere il Canto VII dell’Inferno di Dante). Influenzata dal cinema “improvvisato” di Cassavetes, ma anche dall’elegante rigore coreografico di Jancsó e Tarkovskij, la scrittura di Tarr è affidata a una esasperata dilatazione dello spazio e del tempo in lunghi piani-sequenza. La tensione che ne deriva corrisponde alla stasi spirituale mortifera del racconto e “si traduce in un’indagine ‘ontologica’ sul cinema stesso, sulla dialettica che lo fonda” (A. Piccardi). Fotografia: Gabor Medvigy.
Edit 19/2/24: Ho rippato un bdrip da 44gb e portato a 1080p h265. File unico ovviamente migliore della versione precedente dvdrip.
Il quarantanovenne Beau soffre di gravi disturbi mentali ed è ancora vergine perché convinto dalla madre che se raggiungesse l’orgasmo morirebbe – come accaduto (gli si dice) a suo padre nel momento in cui l’ha concepito. Vive nella paranoia e immagina la città intorno a lui come un inferno, in cui un serial killer si aggira nudo per le strade e i cadaveri vengono lasciati marcire in mezzo agli incroci. Dovrebbe partire per raggiungere la madre, ma in una sequela di atti mancati riesce a farsi rubare le chiavi di casa e il bagaglio, inoltre un incidente con uno psicofarmaco precipita ulteriormente la sua condizione psichica. Investito da un’auto, si risveglia a casa degli amorevoli Roger e Grace, ma non è che la prima tappa di un viaggio allucinante…
Come nell’Ulisse di Joyce, un protagonista ebreo attraversa un’Odissea interiore, che dilata una vicenda di per sé relativamente ordinaria in un inarrestabile flusso di coscienza.
Beau perde però molto presto qualsiasi contatto con la realtà e la sua è una discesa nel delirio, che trasfigura elementi, desideri e incubi della sua esistenza. C’è per esempio una figura che chiede aiuto, ma che allo stesso tempo è anche una presenza minacciosa, una sorta di fratello mancato, come il gemello di Beau che appare in uno degli ultimi atti del film. La figura che chiede aiuto è in fondo Beau stesso, così come la rabbia del “fratello putativo” Jeeves è quella che Beau, per tutta la vita, non ha mai saputo liberare.
Allo stesso modo la presenza paterna, a tratti saggia e quasi catartica, a tratti mostruosa e grottesca, dipinge un rovello psichico insolubile per il protagonista che non l’ha mai conosciuto. Beau è sostanzialmente un inetto nel senso più pieno del termine, non solo per la emblematica verginità, ma perché la sua vita non sembra ammontare a nulla, totalmente schiacciata dalla figura materna.
Non a caso il film si apre con un parto, visto più o meno in soggettiva, e si chiuderà in una caduta nell’acqua, come in un ritorno al liquido amniotico. Nel prologo sentiamo la voce della madre disperata perché il figlio non respira e solo quando finalmente piange, il film volta pagina e ci ritroviamo con Beau adulto dal suo psicanalista, che lo cura con psicofarmaci. Farmaci onnipresenti nella casa di Roger e Grace, che nel secondo atto lo adottano e lo accudiscono quasi come un bambino, in una sorta di contraltare all’assoluto isolamento in cui viveva nel suo appartamento. Ma tanto la solitudine, quanto una famiglia che non vuole lasciarlo andare, sono soffocanti.
Beau, nel terzo atto, arriva così a trasfigurare la propria vita in uno spettacolo teatrale nel mezzo della foresta. È di certo la sezione più visivamente suggestiva del film, che fa ricorso anche a tecniche di animazione e ricorda per certi versi il cinema di Michel Gondry e pure il suo videoclip per il brano Bachelorette di Björk. Infatti anche qui la rappresentazione teatrale arriva a rimettere in scena se stessa, in un gioco di specchi che rischia di precipitare Beau nel solipsismo. Il protagonista crederà tanto al proprio racconto da immaginare di aver avuto persino dei figli. Solo l’apparizione, più o meno fantasmatica, della figura paterna lo scrollerà da questo sogno, costringendolo a procedere nel viaggio verso casa.
Sono molto indeciso se mettere questo film tra i consigliati, è veramente molto particolare. A me è piaciuto. Fatemi sapere che ne pensate nei commenti
Eve Gill (Wyman), studentessa della Royal Academy Dramatic Arts, cerca di scagionare l’amico Jonathan (Todd) che pretende di essere ingiustamente sospettato di avere ucciso il marito della sua amante Charlotte (Dietrich), diva del music-hall. Oltre a innamorarsi dell’ispettore (Wilding) che indaga sul caso, scopre alla fine chi è il vero colpevole. Noto per un lungo flashback menzognero che gli fu rimproverato come una sleale trasgressione alle regole del poliziesco, è uno dei 2 film americani di A. Hitchcock girati a Londra. Tratto da 2 racconti di Selwyn Jepson (Man Running, Outrun the Constable), sceneggiato da Whitfield Cook, è un poliziesco di routine, ma vale più della sua fama. Ha il torto di raccontare una storia in cui sono i cattivi che hanno paura e di avere in J. Wyman un’attrice fuori parte, ma l’ambientazione londinese e teatrale è deliziosa; la prima mezz’ora (con la festa di beneficienza in giardino) e il finale sono notevoli e, in bilico tra ambiguità e volgarità, M. Dietrich lascia il segno.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.