Nel 1791 re Luigi XVI e Maria Antonietta fuggono verso Metz per sottrarsi all’imminente giudizio dell’Assemblea Nazionale. Su un’altra diligenza il cronista Restif de la Bretonne viaggia con Tom Paine, americano liberale, e poi con il vecchio Giacomo Casanova. Raggiungono il re a Varennes: è la notte tra il 20 e il 21 giugno. Film Gaumont di alto costo, esempio di cinema europeo di qualità: tema importante, compagnia internazionale di attori famosi, grande spettacolo, messinscena di accademica eleganza, troppa didattica nei dialoghi (Sergio Amidei), un’apprezzabile distanza dalla materia storica e dai personaggi. Forse Scola s’identifica con Casanova, con il suo sguardo lucido e disincantato.
6 maggio del 1938, giorno della visita di Hitler a Roma. In un comprensorio popolare, Antonietta, moglie di un usciere e madre di sei figli, prepara la colazione, sveglia la famiglia, aiuta nei preparativi per la parata. Una volta sola, inavvertitamente, apre la gabbietta del merlo che va a posarsi sul davanzale di una appartamento difronte al suo. Bussa alla porta, ad aprirle è Gabriele, ex annunciatore dell’EIAR che sta preparando la valigia in attesa di andare al confino perché omosessuale. Mentre la radio continua a trasmettere la radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini, Antonietta e Gabriele si rispecchieranno l’una nell’altro. Dramma psicologico di finissima fattura e eccezionale presa emotiva, Una giornata particolare è una delle vette dell’opera di Ettore Scola, autore anche della sceneggiatura scritta con Ruggero Maccari e la collaborazione di Maurizio Costanzo. Aperto da sei minuti di cinegiornali a contestualizzare il momento storico, questo indiscutibile capolavoro del cinema italiano degli anni Settanta avvolge con i movimenti di una macchina da presa mobilissima, con la fotografia color seppia di Pasqualino De Santis, con un’atmosfera ovattata che, meglio di qualunque altra, comunica una dolorosa sensazione d’attesa. Pur muovendosi soltanto tra due appartamenti, una rampa di scale e una terrazza, il regista riesce a svelare la complessità della congiuntura storico-sociale e quindi di un mondo intero, fatto di rinunce e infelicità, asciugando l’enfasi, ma senza respingere, tuttavia, un continuo e quasi incombente stato di commozione. O meglio di compartecipazione. I punti di vista di Antonietta e Gabriele sembrano, inizialmente, inconciliabili, ma finiscono con l’avvicinarsi. Alla fine della giornata addirittura coincidono perché c’è una sola e giusta direzione di sguardo, un’equivalenza di solitudine capace di colmare le differenze tra due diverse eppure uguali vittime del regime mussoliniano, la prima incosciente e la seconda fin troppo consapevole: «Io non credo che l’inquilino del sesto piano sia antifascista. Se mai il fascismo è anti-inquilino del sesto piano» dirà Gabriele, riassumendo l’orrore della dittatura. Come ogni grande film, è anche una potente riflessione sul tempo, inteso in senso strettamente filmico quanto filosofico, la narrazione si chiude del resto con Antonietta che spegne l’abat-jour dopo il risveglio della propria coscienza: «Una giornata, nulla di più. Di quelle che cambiano la vita. Una manciata di ore che arriva dentro un’esistenza cambiandola. Dopo, tutto sembra diverso. Tutto quello che era accettabile non lo è più, tutto quello che appariva normale non lo è più» (Walter Veltroni, Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1988). Una curiosità: diciotto anni dopo, Ettore Scola girerà nello stesso stabile romano di Via XXI Aprile Romanzo di un giovane povero. Fu candidato all’Oscar nelle categorie Miglior film straniero e Miglior attore, ma l’Academy preferì premiare La vita davanti a sé di Moshé Mizrahi e il Richard Dreyfuss di Goodbye amore mio!. Maiuscola la prova di Marcello Mastroianni e Sophia Loren, per la dodicesima volta insieme.
Melodye Amerson, una giovane insegnante, giunge in un paese situato in una valle un po’ fuori mano per lavorare nella scuola locale, ma si scontra ben presto con l’inspiegabile resistenza degli abitanti e degli scolari che sembrano intenzionati a custodire un misterioso segreto. Melodye, fiduciosa e disponibile verso il prossimo, non si lascia scoraggiare dalla fredda accoglienza.
Edit 22/2/24: ho tolto il link della versione ita perchè su segnalazione di un utente il film è risultato incompleto, ci sono solo gli ultimi 30 minuti circa.
Questa versione in inglese è di bassa qualità ma è il meglio che sono riuscito a trovare in rete. I subita sono stati tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un film di Paul Leni. Con Conrad Veidt, Olga Baclanova, Mary Philbin, Olga Baclanova Titolo originale The Man Who Laughs. Drammatico, b/n durata 75 min. – USA 1928. MYMONETRO L’uomo che ride [1] valutazione media: 3,79 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Ambientato nella Londra di fine ‘700 e tratto dal romanzo L’homme qui rit (1869) di Victor Hugo, il film di Leni racconta la storia di un piccolo orfano dal volto sfigurato e dal ghigno perenne, Gwynpaline, che vive passando di fiera in fiera insieme al fidato Ursus, a una bambina cieca, Dea, e al cane Homo. La sfortunata compagnia va avanti proponendolo come fenomeno da baraccone finché il ragazzo, cresciuto (Conrad Veidt), non scopre di essere figlio di un aristocratico. Ma in una dura requisitoria contro la nobiltà tenuta alla Camera dei Lord, Gwynpaline rinnega le proprie origini e sceglie di tornare alla sua vita con i fedeli amici di sempre che nel frattempo sono stati messi al bando. L’uomo che ride è il terzo film americano del regista tedesco Paul Leni, capace di tradurre con grande efficacia, nell’ultimo periodo del cinema muto, il romanticismo di Hugo in un melodramma di ispirazione espressionista. Il finale del film risulta diverso da quello più crudo e fedele al testo di Hugo che Leni avrebbe voluto utilizzare.
Su sceneggiatura di Julian Mitchell, il film – realizzato per la TV – racconta la vita di Vincent Van Gogh (1853-90) dal 1880 al 1890 parallelamente a quella del fratello Théo, gallerista che lo mantiene e che vive in funzione sua, disegnando una simbiosi radicale ora commovente ora inquietante. Quel che Altman vuole raccontare, in fondo, è la storia di un mistero. Non dice che la vita di Van Gogh è stata misteriosa e nemmeno “ci rivela in che cosa consistesse questo mistero: ci costringe a viverlo come spettatori” (G. Cremonini). Così si spiegano i vuoti, le reticenze, le ellissi della narrazione. È un film sulla quotidianità e sull’umanità di Van Gogh, non sulla sua grandezza.
Nella versione in inglese ho tradotto i subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Identificare un artista attraverso il suo lavoro più iconico è un privilegio riservato ai grandi autori. Chi è più riconoscibile e popolare di Van Gogh nella pittura? Un Leonardo, un Michelangelo, forse no: i girasoli dell’artista olandese di fine ottocento sono elementi ormai nell’immaginario e nel background storico e culturale di tantissimi, di generazioni e persone tra le più diverse. Il film di David Bickerstaff racconta in particolare l’attenzione che Vincent Van Gogh riponeva nella natura morta, nell’osservazione dei fiori, soprattutto quelli più semplici, quelli da campo, fruibili da tutti, e dall’esplorazione ampia dell’utilizzo di una palette di colori in continuo cambiamento.
8 racconti (“Questi sogni che ho visto” dice il titolo giapponese), legati dalla presenza di un personaggio che parla in prima persona. I primi 2 rimandano all’infanzia dell’autore; i 3 successivi agli anni ’30 e ’40; didattici il 6° e il 7° sull’apocalisse nucleare. Le nostre preferenze personali vanno al 2° (“Il pescheto”) e all’8° (“Il villaggio dei mulini”), ma ammiriamo anche il 1° (“Sole attraverso la pioggia”), il 3° (“La tempesta”), il 5° (“Corvi” su Van Gogh con M. Scorsese); non ci dispiace il 4° (“Il tunnel”). Realizzato con la consulenza di I. Honda ( Godzilla ), l’apporto finanziario di Steven Spielberg e George Lucas, gli effetti speciali dell’Industrial Light & Magic. Ora visionario, ora tenerissimo, sempre di alto livello figurativo.
La vita tormentata di Vincent Van Gogh. Dalla sua esperienza di missionario nelle miniere di carbone nel Belgio agli inizi come pittore a Parigi, alla parentesi ad Arles assieme all’amico Paul Gauguin, fino al suicidio, in un campo di grano, durante una delle sue violente crisi depressive. Il film fece vincere ad Anthony Quinn (Gauguin) il secondo Oscar della sua carriera (ma Kirk Douglas mancò per un pelo la statuetta e se la meritava).
È di sole che ha bisogno la salute e l’arte di Vincent van Gogh, insofferente a Parigi e ai suoi grigi. Confortato dall’affetto e sostenuto dai fondi del fratello Theo, Vincent si trasferisce ad Arles, nel sud della Francia e a contatto con la forza misteriosa della natura. Ma la permanenza è turbata dalle nevrosi incalzanti e dall’ostilità dei locali, che biasimano la sua arte e la sua passione febbrile. Bandito dalla ‘casa gialla’ e ricoverato in un ospedale psichiatrico, lo confortano le lettere di Gauguin e le visite del fratello. A colpi di pennellate corte e nervose, arriverà bruscamente alla fine dei suoi giorni.
Quando il cinema incontra l’arte l’esito non è mai banale ed è sempre un arricchimento. Soprattutto se, come accade in Loving Vincent, ogni singolo fotogramma del film è realizzato a mano.
Dorota Kobiela, pittrice polacca, e il regista inglese Hugh Welchman, hanno intrapreso questa avventura sei anni fa per raccontare, attraverso uno stile da cinema noir, le ultime settimane di vita del pittore olandese trasferitosi ad Arles, in Francia, nel 1888.
Vincent Van Gogh, l’artista più noto al mondo, pioniere dell’arte contemporanea e personaggio tormentato, nel luglio 1890 si spara in un campo di grano nei pressi di Arles. Il giovane Armand Roulin, figlio del postino Roulin, unico amico di Van Gogh -, non convinto del suicidio dell’artista, ripercorre le sue ultime settimane di vita incontrando le persone che, anche nei momenti più drammatici, gli sono state vicine.
Da Adeline, la padrona di casa del pittore, a pére Tanguy, fino al pescatore o il dottore Paul Gachet e la figlia tutti rigorosamente ritratti a olio, restituendo vita all’immediato e riconoscibile stile di Van Gogh. La casa gialla, il campo di grano e i fiori azzurri, la stanza con la sedia… realizzati con pennellate vivide, colori visionari e brillanti, e quel movimento fluido tipico del tocco “vangogghiano”, si alternano al bianco e nero delle parti narrative.
Un film prodotto con tenace e minuzioso lavorìo in cui più di 100 artisti, con la tecnica del Painting Animation Work Station hanno animato un thriller interamente costituito da pittura che coinvolge totalmente lo spettatore.
Due soggetti si incontrano in una sala da poker della California. Bevono. Diventano amici dopo essere stati congiuntamente aggrediti in un parcheggio. Non si conoscevano prima e continuano a non saperne molto l’uno dell’altro, ma sono consapevoli di ciò che c’è da sapere: sono due irrimediabili giocatori. Si tratta di Charlie Waters e Bill Denny. Due vite vissute alla giornata, prima del miracolo finale a Reno. Mr. Altman da vita a personaggi scanzonati, eccentrici e caricaturali. Ogni suo film, è totalmente autonomo dagli altri, senza un’ evidente continuità tra il prima e il dopo. Il cineasta ha sempre avuto una filmografia convulsa, forte anche dei grandi cambiamenti che stavano attraversando il panorama cinematografico hollywoodiano americano a partire dagli anni Sessanta fino alla metà del decennio successivo, dalla progressiva scomparsa dei generi che avevano fatto la fortuna di Hollywood all’esplosione della televisione. Non c’è genere che confini California Poker, né coerenza se non la propria. Non una stravagante e graffiante commedia sulla febbre del gioco, ma un viaggio in un incubo tutto americano o quasi, impressionante diagnosi psicologica e sociale, di straordinaria precisione.
Un plotone di soldati inglesi deve compiere nel 1942 un rischioso colpo di mano al quartiere generale tedesco di Bengasi, in Libia. Al comando due ufficiali diventati mortali nemici. Uno dei due è un vile e l’altro lo sa. Suggestivo, pieno di pagine di dolorante intensità e sequenze di smagliante efficacia, ha anche momenti sordi o irrisolti ma non incidono. Funzionale fotografia di M. Kelber. Da un romanzo di René Hardy. “Come il sole, Vittoria amara vi farà chiudere gli occhi. La verità acceca” (J.-L. Godard).
L’8 aprile 1979 il 34enne Wenders fa visita, nella sua casa-laboratorio di Spring Street a New York, al suo amico-maestro-padre Nicholas Ray (1911-16 giugno 1979), divorato da un tumore e vicino alla morte. Circondato da parenti e amici, Nick accetta di vivere gli ultimi giorni davanti alla cinepresa di Wenders, sapendo che cosa metterà fine alle riprese: la propria morte. Film unico nella storia del cinema. Pone molte domande: dove termina in Ray il bisogno di chiudere la propria vita lavorando (e trovando sé stesso prima di morire) e dove comincia il suo esibizionismo? In che misura il film è sconvolgente e quanto è osceno? In che misura Wenders ha sfruttato Ray e quanto è stato da lui sfruttato? “Ma al di là del contratto Wim appare stordito… si è accorto che sta filmando qualcosa mai filmato prima, quello che Proust nelle sue ultime parole aveva chiamato l’immense frivolité des mourants” (B. Bertolucci). Dopo il 1° montaggio di 116 minuti, di Peter Przygodda, con cui il film fu esposto ai Festival di Cannes e di Venezia del 1980, fu interamente rimontato.
Un film di Nicholas Ray. Con Robert Wagner, Jeffrey Hunter, Hope Lange, Agnes Moorehead. Titolo originale The True Story of Jesse James. Western, durata 92′ min. – USA 1957. MYMONETRO La vera storia di Jess il bandito valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.Finita la guerra civile, Jesse e Frank James diventano rapinatori di banche e di treni. Rifacimento di Jess il bandito (1938) di H. King attraverso un complicato intreccio di flashback e nelle cadenze di un’ode in mortem. È uno dei 3 western di Ray, tutti eccentrici, con personaggi anticonformisti o ribelli, con o senza causa, perdenti romantici che cercano nell’amore un’estrema ragione di essere e di vivere.
Durante la rivolta dei Boxer nel 1900 e il lungo assedio del quartiere diplomatico dove convivono i rappresentanti di otto delegazioni straniere, maggiore americano ha un grande e breve amore con bella baronessa. Realizzato dal produttore Samuel Bronston, fu girato in Spagna con 2 obiettivi principali: lo sfarzo della messinscena e il richiamo divistico dei suoi interpreti. È il film meno personale di N. Ray che, colpito da un infarto, lo lasciò dopo 2 mesi di riprese ai suoi assistenti. È uno di quei colossi nei quali il massimo sforzo produce il minimo risultato.
Lucifer Rising è un film documentario sperimentale del regista Kenneth Anger. Il film venne completato nel 1972 ma fu distribuito soltanto nel 1980.
Il film non ha una trama vera e propria, si svolge in diversi luoghi ritenuti “magici” in Egitto, Inghilterra e Germania. Secondo alcune fonti parte delle riprese sarebbero state effettuate sull Etna.
Nel film viene narrata, sostanzialmente, l’ascesa di Lucifero, figura divina considerata emblema del bene assoluto e del male assoluto in contemporanea. E la sua evocazione da parte di 5 diverse entità: Iside e Osiride (divinità egiziane che rappresentano rispettivamente la natura e la fecondità, la morte e la resurrezione); un adepto; Lilith (qui rappresentata come dea della distruzione) e un mago (interpretato dallo stesso Anger).
Il film è costituito da una serie di sequenze prive di dialoghi che raffigurano celebrazioni pagane, riti magici, evocazioni oscure, spesso utilizzando frenetiche tecniche di montaggio alternato.
Constance Peterson (Ingrid Bergman) è una giovane dottoressa che lavora presso una clinica psichiatrica e che non presta alcuna attenzione ai suoi pur tanti ammiratori. Almeno fino a quando nella clinica arriva il dottor Edwards (Gregory Peck), destinato a prendere il posto del vecchio direttore, il dottor Murchison (Leo G. Carroll), che deve andare in pensione per raggiunti limiti di età. Tra i due scoppia improvviso l’amore, tanto che la riservata dottoressa dedita solo al lavoro si trasforma in una donna follemente innamorata. Ma Edwards ha comportamenti alquanto strani – ad esempio non sopporta la visione della neve e delle righe – che porteranno Constance a scoprire che l’uomo non è il dottor Edwards, ma un misterioso John Ballantine che ha perso la memoria e crede di aver ucciso il vero dottor Edwards per prenderne il posto. Ben presto i sospetti trapelano anche nella clinica e i due sono costretti a fuggire e a rifugiarsi in casa del dottor Brulov (Michael Chekhov), di cui Constance era stata in passato la giovane assistente, che dopo gli iniziali dubbi aiuterà l’uomo a recuperare finalmente la memoria. Definito dallo stesso autore come una “caccia all’uomo in un involucro di pseudo-psicoanalisi”, Io ti salverò costituisce uno dei più celebri e complessi thriller di Hitchcock, impreziosito dalle immagini oniriche realizzate appositamente da Salvator Dalì e sorretto dalla coppia Ingrid Bergman-Gregory Peck.
In un carcere di massima sicurezza, improvvisamente, guardie e detenuti diventano vittime di un’ondata di violenza che sfocerà in una rivolta. Attraverso i racconti dell’ufficiale David B. Yale e il detenuto Henry Lee Wenzi le autorità competenti chiamate a investigare sugli eventi scopriranno i motivi che hanno reso necessario lo stato di emergenza…
A partire dalla Rivoluzione francese del 1789, Napoleon segue la parabola dell’ascesa al potere supremo di Napoleone Bonaparte da sconosciuto militare, capitano d’artiglieria, a Imperatore. Oltre alle armi, alle battaglie e alle strategie politiche, il film racconta da vicino la burrascosa storia d’amore di Napoleone con Giuseppina.
America, anni Venti: un pilota che si guadagna da vivere in un circo rimane affascinato dal racconto di uno spettacolare duello aereo di un connazionale con un tedesco. Tempo dopo, dovendo girare una scena cinematografica, si troverà di fronte proprio il tedesco. Finalmente, potrà vivere in prima persona quella storia.
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