Durante una partita di cricket tra dottori e pazienti in un ospedale psichiatrico, il paziente incaricato di segnare il punteggio racconta una strana ed inquietante storia, omettendo di esserne il protagonista. Racconta di uno studioso ritornato da anni trascorsi in compagnia degli aborigeni e di come questi turbi la quiete di una tranquilla coppia.
Bilal, curdo 17enne, dall’Iraq va a piedi fino a Calais (4000 km!) in 3 mesi, e poi comincia ad allenarsi in piscina: vuole attraversare la Manica a nuoto per raggiungere a Londra l’amata Nina. C’è Simon, 50 anni, in crisi con la moglie, che prima allena Bilal a pagamento, poi giorno dopo giorno ne diventa un padre amoroso, deciso a tutto per aiutarlo. È straordinario il 5° film del parigino Lioret: fluido, coeso, emotivamente coinvolgente. Vicende eccezionali e personaggi insoliti, autenticità nel realismo di luoghi, ambienti, atmosfere. Non filma: dà vita alle inquadrature. Lindon, da sempre attore sottovalutato, non sbaglia una battuta né un silenzio; altrettanto espressiva è Dana, la moglie che ha deciso di lasciarlo. Trovare un ragazzo che parli curdo e inglese, sappia nuotare e giocare al pallone, era difficile: hanno trovato Firat. In Francia c’è una legge che punisce con l’arresto fino a 5 anni i cittadini che aiutano gli immigrati clandestini. Lioret ne mostra le crudeli e assurde conseguenze senza un briciolo di retorica. In Panorama di Berlino 2009 (non in concorso!), ottenne 3 premi, tra cui quello del pubblico. Scritto da Lioret con Emmanuel Courcol, Olivier Adam. Fotografia: Laurent Dailland. Musiche: Nicola Piovani, Wojciech Kilar, Armand Amar.
Nella cittadina inglese dove vive il prof. Robert Miles, che passa il tempo a registrare le “voci dei morti” col suo gatto nero, si succedono strane morti. Molto liberamente ispirato al racconto di E.A. Poe, è un impasto non riuscito di parapsicologico, demoniaco e horror fantastico con gli ingredienti del giallo.
Due padri: Michael Sullivan, sicario irlandese al servizio di una banda che ha il suo referente a Chicago in Al Capone, e John Rooney, il suo boss che gli porta paterno affetto. E due figli: il tredicenne Michael Sullivan Jr. e Connor Rooney, figlio depravato e ladro di John. Alla fine di un lungo, sanguinoso itinerario di perdizione e vendetta ne sopravviverà soltanto uno. Dal romanzo a fumetti di Max Allan Collins e Richard Piers Rayner, liberamente sceneggiato da David Self, l’inglese Mendes ha tratto un ambizioso e stilizzato film di violenza che è una rivisitazione del cinema gangsteristico degli anni ’70-’80, da Coppola a Leone. Regia di maniera? Forse, ma di alta classe nella ridondanza dei suoi segni, come rivelano il massacro notturno sotto la pioggia senza colonna sonora, la stringata serie delle quiete rapine in banca, il senso dei grandi spazi attraversati dalle vecchie Ford, la suggestiva ricostruzione ambientale, l’interpretazione sotto le righe di Hanks, monocorde eppur ricca di sfumature, il livido ritratto del fotografo/sicario (Law). Oscar per la fotografia (del veterano Conrad L. Hall, 1926-2003).
In un futuro mondo concentrazionario, dove è d’obbligo vivere in coppia, David è internato in un albergo-carcere con riti da villaggio turistico, dove ha 45 giorni per trovare una partner ed evitare così di essere trasformato in animale. Fugge nel bosco e si unisce ai Solitari, ribelli al regime dell’accoppiamento coatto, tra i quali però è proibito l’amore. Al suo 4° film, Lanthimos conferma il suo cinema dell’assurdo, basato su casi-limite tra il grottesco e il surreale, con una science fiction in chiave di commedia drammatica, che si aggira dalle parti di 1984 di Orwell e di Fahrenheit 451 (1966) di Truffaut. Dopo un avvio brillante, che è anche una gustosa satira della subcultura di massa contemporanea, il ritmo cala un po’ per poi recuperare con un finale shocking. Morale: per amarsi bisogna essere uguali e quindi amputare le proprie diversità. Cosceneggiato dal regista con Efthymis Filippou. Premio della giuria a Cannes 2015.
Un film di Eric Rohmer. Con Renaud Verley, Zou Zou, Daniel Ceccaldi, Françoise Verley, Malvina Penne, Babette Ferrier Titolo originale L’amour l’après midi. Commedia, durata 105′ min. – Francia 1972. MYMONETRO L’amore il pomeriggio valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Felicemente sposato e in attesa del secondo figlio, Frédéric fantastica col proprio dongiovannismo represso, ma Chloé lo mette in crisi. 6° e ultimo dei “racconti morali” di Maurice Schérer. Rohmer qui si diverte più del solito, con sorniona raffinatezza, a far dell’ironia sul suo protagonista. C’è il solito giro di appuntamenti (atti sessuali?) mancati e di percorsi che non s’incrociano mai, e una magistrale sequenza finale che ribalta l’intero assunto del film, il solo di Rohmer con dei nudi.
Il giorno di Ferragosto due occasionali amici, uno studente universitario un po’ timido e un quarantenne immaturo, passano assieme la giornata spostandosi con l’auto. Le ore passano veloci in un susseguirsi di episodi tragicomici, fino all’epilogo inatteso e drammatico: la morte dello studente causata dall’incoscienza dell’altro. Si tratta di un autentico cult movie, tra i pochi che può vantare il cinema italiano del dopoguerra. Un’intuizione geniale è all’origine del film, che può essere definito un road movie; il confronto di due generazioni nel territorio neutro di una giornata di vacanza. La complementarietà dei caratteri dei due protagonisti è un supporto dalle solide basi. La sceneggiatura di Scola, Risi e Maccari è in perfetto equilibrio tra la commedia all’italiana e il dramma sociale, questo appena accennato con alcune allarmanti sequenze disseminate nel film e concluso nell’impietoso finale. Il cialtronesco Gassman, finalmente libero, come lui stesso ammette, dai vincoli delle caratterizzazioni, dai ghigni classicheggianti, esprime in alcune sequenze la sua dirompente fisicità. Distrugge con l’intuizione del superficiale i luoghi comuni che lo studente Trintignant si era costruito in un’intera vita, sui suoi parenti. Libera lo charme opaco di una zia del suo amico. In ogni spostamento, dalla Roma deserta del mattino di Ferragosto e lungo le strade della Versilia fino alla Costa Azzurra, si gioca la sua dignità e persino la figura di padre. La partita a ping-pong con Gora è al riguardo esemplare. L’attonito Trintignant in quesa scuola dei dritti è infatti l’unico a soccombere, emblematicamente. Non pochi hanno lamentato il cambio di rotta mostrato all’epilogo. Un risveglio dalla partitura scoppiettante di una pellicola che sembrava dover dispensare un eclettico piacere a fior di pelle. Come ne La grande guerra e Una vita difficile il cinema italiano aveva trovato, se non un vero e proprio stile, un equilibrio che poggiava su una precisa rappresentazione della società italiana, senza dover ricorrere ai macchiettoni che il depravato cinema d’oggi mostra con lugubre allegria. Il rimpianto di quel cinema è presente in ogni spettatore che abbia solo visto quei film pur non facendo parte di quella generazione. Ed ecco allora la Lancia Aurelia Sport diventare un oggetto mitico. Così come alcune battute di questi film vengono tramandate con puntuale approssimazione, ma con sincera partecipazione. Il sorpasso, al suo apparire quasi snobbato dalla critica, si è ritagliato col tempo uno spazio che appartiene di diritto alle grandi memorie del cinema centenario.
La storia vera dell’austriaco Heinrich Harrer (1912-2006), tratta dalla sua autobiografia: alpinista, campione di sci, attore, arruolato nelle SS, conquistatore della parete Nord dell’Eiger nel 1938, mancato scalatore nel 1939 del Nanga Parbat, uno degli 8000 della catena himalayana. Prigioniero degli inglesi, evade dal campo di prigionia nel 1942 con un compagno. Giunto a Lhasa, città proibita del Tibet, diventa amico di un Dalai Lama adolescente, cinefilo e curioso dell’Occidente. Colossal alla “National Geographic” di grandiosità vacua senza brividi né vere emozioni in linea con la moda del buddismo tibetano, le velleità spiritualeggianti e New Age di fine millennio care agli intellettuali mezze calze della cultura euroamericana che si proclamano atei ma spiritualisti, riducendo il buddismo al suo afflato pacifista e alla compassione universale. La conversione di Harrer (il bel B. Pitt) da nazista egoista, spavaldo e muscolare ad adulto mite e buono è enunciata senza sfumature, ma non raccontata. Sfilacciato, prolisso e un po’ tedioso anche nelle sue parti semidocumentaristiche nell’esotismo quotidiano di Lhasa. Scritto da Becky Johnston.
Negli anni Trenta due abili imbroglioni riescono, con una partita a poker truccata e con una girandola di trovate esilaranti, a truffare una grossa somma di danaro a un terribile gangster di Chicago. La truffa colossale è anche e soprattutto l’occasione per vendicare una morte di un comune amico. Idealismo, abilità e guasconate costituiscono l’esplosiva miscela di questo soggetto condotto magistralmente da Hill che vi schiera la stessa squadra del fortunato Butch Cassidy e soprattutto si affida al ragtime di Scott Joplin riarrangiato da Marvin Hamlish. La colonna sonora crea un’atmosfera unica e irrepetibile. Il film fece incetta di premi Oscar e sbancò al botteghino.
Giappone XIX sec. Zatôichi, massaggiatore cieco col vizio del gioco a dadi e micidiale maestro di spada, arriva in un villaggio i cui abitanti sono taglieggiati dal clan dei malvagi Ginzo. Col suo amico Shinkichi (Taka) s’imbatte nelle sorelle Naruto, Okinu (Yuko) e Osei (Daigorô), che si fingono geishe in attesa di vendicare il massacro dei genitori. Le aiuterà a fare giustizia. 1° film di Kitano in costume, del genere chambara (cappa e spada). Tratte dai popolari racconti di Kan Shimozawa, le avventure di Zatôichi furono rilanciate negli anni ’60 dall’attore Shintaro Katsu che tra il ’62 e l’86 interpretò il personaggio in una serie TV e in una ventina di lungometraggi per le sale. È il suo film più divertito e divertente, il più gratuito forse, ma all’insegna di una libertà fiabesca nella mescolanza dei generi e di un’idea di cinema come fusione di danza, musica, teatro, pittura. Nonostante la bravura dell’attore e la bellezza di molte sequenze, compreso il balletto nel suo sfrenato ritmo funk-a-step eseguito dal gruppo The Stripes, qualche aficionado di Kitano ha rimpianto l’assenza della sua malinconica e tragica visione del mondo di cui rimangono fievoli tracce. Non ha tenuto conto che, come ha fatto notare Roberto Escobar, non vale tanto per i contenuti, ma per la sagacia dell’orchestrazione di forme, gesti, colori, ritmi. Il suo nucleo è “nel tema della vita come sogno, allucinazione o come rappresentazione, gioco di maschere governato dal caso” (V. Buccheri). È la vita messa in immagini audiovisive come macchina romanzescnto – davvero tutto fisico e sublimato nella risata – del pubblico, affrancato da qualsivoglia speculazione. Zaitochi si realizza nel combattimento come Kitano nel divertimento, dimentico dei codici che da sempre regolano il cinema “in costume”. Allora, quasi naturalmente, il guerriero nipponico approda al musical, sul palcoscenico, dove gli eroi del cinema convivono con quelli della televisione, quelli della letteratura con quelli della leggenda, dentro, anzi sotto un tip tap che “danza” i singoli elementi in un ritmo globale, dove è impossibile inciampare, o quasi!
De Niro è il bandito Neil, Pacino il poliziotto Vincent. I due si conoscono da tempo. Neil, nevrotico, crudele, non vuol tornare in prigione, preferirebbe uccidere e morire. Vincent, estroso, intelligente, vessato da moglie ed ex mogli, è uno che non molla. A complicare ci si mettono lo psicopatico Chris (Kilmer) e un paio di dark. Ci si confronta, si spara, ci si insegue in macchina in una Los Angeles mai così protagonista di un film. Produzione di grande budget e di grandi talenti, con due fra i massimi e ormai storicizzati attori del cinema internazionale. De Niro e Pacino (tre Oscar in due), diversissimi e complementari, funzionano. E come potrebbe essere altrimenti? Sono solo due le sequenze in cui si confrontano direttamente e il regista Mann è riuscito, con dei controcampi e senza farli incontrare sul set, a tenere a bada la loro voglia di competizione. Da sottolineare l’intenzione realista del film, dove niente è ricostruito o girato in studio. Grande, completo successo.
Il militare Percy Fawcett nella Gran Bretagna dell’inizio del secolo scorso ha davanti a sé scarse possibilità di avanzare di grado. Accetta quindi la proposta della Royal Society di recarsi in Amazzonia, ai confini tra Brasile e Bolivia, per mappare un territorio sino a quel momento privo di definizioni cartografiche. Fawcett lascia la moglie per una missione che dovrebbe durare due anni. Rimane però così affascinato dalla foresta amazzonica da decidere di tornarvi alla ricerca di una città nascosta di cui è convinto di aver trovato significative tracce.
Ispirata alle vere gesta del gangster Al Capone (Alphons Gabriel Capone, 1899-1947), nato a Brooklyn (da genitori, barbiere e lavandaia, di origine campana), la scalata al potere di Tony Camonte che diventa il n. 1 della criminalità organizzata di Chicago negli anni ’20, finché commette uno sbaglio per gelosia della propria sorella Cesca. Girato nel 1931, già con piena padronanza del sonoro, ebbe molti guai con la censura. H. Hawks, che ne era anche il produttore, girò 3 finali. È, forse, il più celebre dei gangster movie, una delle vette del genere. Che cosa lo distacca dagli altri? Non la furia saettante del ritmo, non la ricca galleria dei personaggi, non la vigoria plastica delle immagini e nemmeno la mancanza di scorie sentimentali. La vera ragione della sua grandezza è nella sua natura di dramma che aspira a essere tragedia, nel passaggio dal “patetico” del primo al “sublime” della seconda. Da un romanzo (1930) di Armitage Trail (vero nome: Maurice Coons), sceneggiato da 5 scrittori tra cui Ben Hecht e W.R. Burntt e più volte ricorretto da Hawks. Prodotto da Howard Hughes che impose il moralistico sottotitolo (La vergogna di una nazione) per tacitare la censura e le associazioni patriottiche dei benpensanti. Nel romanzo Capone si chiama Tony Guarino. Rifatto da Brian De Palma nel 1983.
Il cameriere di un giovane, ricco ma debole di carattere, fa in modo che il padrone si innamori di una prostituta che presenta come sua sorella. Scoperta la verità l’uomo li caccia, ma poco dopo, solo e infelice, riassume l’uomo. Il cameriere prende sempre più potere su di lui, fino a ridurlo ad una semplice presenza.
Il titolo del film riecheggia una canzonetta in voga negli anni Trenta. Un uomo e una bambina (nella vita la figlia di O’Neal), che lo supera nell’arte di campare di espedienti, compiono un viaggio avventuroso attraverso gli States e la loro umanità inquieta alla ricerca di identità.Girato in bianco e nero con una pellicola che presentava volutamente un’abbondante “pioggia”, il film è un tenero ricordo delle vecchie storie hollywoodiane.
Cronaca di un giorno d’agosto in un ufficio di polizia a New York. Un ispettore di patologica durezza, scoperta una macchia nella sua famiglia, entra in crisi. Eccellente adattamento del dramma teatrale (1949) di Sidney Kingsley con un Douglas in gran forma e un ottimo reparto femminile. Quasi assoluta l’unità di tempo e di luogo, un po’ verboso, geometrico nella fluidità dell’azione complessa, didattico senza pesantezze come riflessione sulla violenza con risvolti pseudofreudiani, Detective Story è, come Ore disperate (1955) dello stesso Wyler, il “pilota” involontario di una lunga serie di film. 5 candidature all’Oscar. Sceneggiatura di Philip Yordan e Robert Wyler, fratello del regista (con collaborazione non accreditata di Dashiell Hammett). 1° film, e ultimo prima di essere messa sulla lista nera per le sue idee di sinistra, di L. Grant (la ladra).
Cinque persone vengono uccise apparentemente a caso da un cecchino, sulla banchina di un fiume, mentre conducono la vita di tutti i giorni. Le prove sono schiaccianti e incastrano un ex militare, un tiratore addestrato. Pestato brutalmente durante l’interrogatorio, prima di cadere in coma, l’accusato fa un solo nome: Jack Reacher. L’avvocato difensore non sa come soddisfare la richiesta, Reacher sembra non esistere, ma ecco che è lui stesso a presentarsi, con una teoria a dir poco spiazzante: il militare è colpevole, ma non di quell’eccidio.
Un film di Henry Koster. Con Richard Todd, Bette Davis Titolo originale The Virgin Queen. Avventura, durata 92′ min. – USA 1955. MYMONETRO Il favorito della grande regina valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Ritratto in piedi di Sir Walter Raleigh (1552-1618) che viaggiò molto in mare per conto della sua regina Elisabetta, occupò la Virginia, introdusse in Europa l’uso del tabacco e la coltivazione della patata. 1° cinemascope e 2ª Elisabetta regina per la Davis, ma il vero protagonista è Sir Walter Raleigh (Todd). Convenzionale, competente, storicamente semplificato, ma ben recitato da tutti. A testa rasata, la Davis è grande.
È la storia romanzata dell’amore travagliato tra Elisabetta e il conte di Essex, tra intrighi di corte, tradimenti, decapitazioni. Tratto da Elizabeth the Queen di Maxwell Anderson, è un insieme di tableaux senza vita, resi più brillanti, talvolta, da scenografie pittoresche o espressioniste. B. Davis trabocca di manierismi. E. Flynn manca di tono e di colore. Nel 1939 M. Curtiz diresse 4 film e mezzo.
Dal romanzo di Irvin Welsh. Quattro amici drogati in Scozia. Il protagonista all’inizio elenca una serie di ottime ragioni che inducono a drogarsi. In sostanza se prendi l’eroina hai un solo problema: l’eroina. Se non la prendi hai tutti gli altri problemi della vita, infinitamente peggiori. Gli amici parlano, si bucano, fumano, c’è anche un po’ di sesso. Muore una bambina figlia di drogata. Tentativi di disintossicarsi. Genitori quasi complici. Infine i quattro incappano in un fortunato colpo: guadagnano sedicimila sterline vendendo una partita di droga. McGregor, il protagonista, ruba il denaro. Si redimerà. Le ultime parole del film sono: “..scegliete un lavoro, la famiglia, lavatrici, automobili, apriscatole elettrici e un cazzo di televisore col maxischermo. E poi una domenica chiedetevi chi cazzo siete e perché avete scelto di marcire…”. Nel frattempo abbiamo visto il ragazzo pescare due supposte, appena espulse, da un water, un altro che riempie di merda un lenzuolo. E ogni particolare di iniezioni, vomito, sporcizia, turpiloquio, eccetera. Per giustificare certe iniziative il regista ricorre a volte all’ironia e al surreale e in quel senso il film riesce a funzionare. Certo, è drammatico il significato generale. Questo film non è nemmeno ammiccante, è una chiara apologia della droga. Ci offre un mondo come se fosse normale, e non lo è. Frank Sinatra era drogato nell’ Uomo dal braccio d’oro, poi incontrava Kim Novak che lo salvava. Qui ci si dice che la salvezza sta nell’eroina.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.