Regia di Sergey Mokritskiy Con Yuliya Peresild, Evgeniy Tsyganov, Joan Blackham, Anatoliy Kot, Oleg Vasilkov, Nikita Tarasov, Stanislav Boklan, Natella Abeleva-Taganova…BitvazaSevastopol Ucraina,Russia, 2015 Genere: Biografico durata 110
La storia di una donna che ha cambiato il corso della storia: Lyudmila Pavlichenko. Leggendario cecchino sovietico donna durante la Seconda guerra mondiale, Lyudmila ha visto morte e sofferenza sui campi di battaglia ma la sua prova più dura è stata quella che ha dovuto subire per via dell’amore, fortemente compromesso dal conflitto.
Antonio (Lo Verso), giovane carabiniere calabrese, ha il compito di accompagnare l’undicenne Rosetta (Scalici), prostituita dalla madre, e il fratellino Luciano (Ieracitano) in un orfanotrofio di Civitavecchia che, però, si rifiuta di accoglierli. Il viaggio prosegue per un istituto in Sicilia. Il cuore di questo film bellissimo e importante _ scritto dal regista con Sandro Petraglia e Stefano Rulli _ è nel rapporto tra carabiniere e bambini: lenta conquista, avvicinamento, osmosi. Grazie ad Antonio i due bambini _ che nei film di Amelio sono sempre una maschera dell’adulto non cresciuto _ imparano per pochi giorni a ridiventare bambini. Pur nella fedeltà a un’alta idea di cinema che dice attraverso il non detto e tende a esprimere l’inesprimibile, Amelio ha fatto un film emozionante anche nella sua durezza e nel rifiuto di ogni consolazione. La sua concretezza disadorna si può cogliere nel modo, sommesso e lucido, con cui si dà testimonianza dell’Italia sia nel paesaggio (la mescolanza di sfascio e benessere) sia nell’acquiescenza tranquilla della piccola gente di Calabria e Sicilia. Almeno due sequenze memorabili: il pranzo in Calabria e il bagno in mare. Gran Premio della Giuria a Cannes e il Felix per il miglior film europeo. 2 Nastri d’argento (regia, sceneggiatura).
Diviso in 6 capitoli, è l’analisi di un rapporto di coppia tra Marianne e Johann su un arco di 10 anni. Nell’ultimo capitolo, ormai divorziati e risposati, si ritrovano dopo sette anni, più maturi e adulti. Curata dallo stesso regista, l’edizione cinematografica deriva da uno sceneggiato TV in 6 “scene” che dura 294 minuti: 1) “Innocenza e panico”; 2) “L’arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto”; 3) “Paola”; 4) “Valle di lacrime”; 5) “Gli analfabeti”; 6) “Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo”. Tra sussurri e grida, in altalena tra tenerezza e violenza, in bilico tra il paradiso (illusorio) e l’inferno (autentico), quel che prevale in questa decennale odissea (o corrida?) coniugale è il purgatorio. Con rarissimi esterni l’azione è fondata sulla parola, sui gesti, sul comportamento, filmata quasi sempre in primo piano o con piani ravvicinati. È, sotto ogni riguardo, il film dei film di L. Ullmann, ma E. Josephson le sta a pari con un impercettibile crescendo lungo l’arco del racconto. Hanno le voci italiane di Vittoria Febbi e Corrado Pani in un doppiaggio ben curato da Franco Rossi. Girato in 16 mm gonfiato a 35.
Un film di Roman Polanski. Con Josiane Belasko, Jacques Rosny, Maïté Nahyr, Patrice Alexsandre, Serge Spira, Jacky Cohen, Eva Ionesco, Dominique Poulange, Louba Guertchikoff. Titolo originale Le locataire. Commedia, durata 125 min. – Francia 1976. MYMONETRO L’inquilino del terzo piano valutazione media: 3,83 su 37 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Trelkovski, modesto impiegato di origini polacche, prende possesso a Parigi di un appartamento la cui inquilina precedente, Simon Chule, si è uccisa buttandosi dalla finestra. O, sarebbe meglio dire, è l’appartamento stesso a prendere possesso dell’uomo. Circondato da inquietanti e grotteschi vicini, Trelkovski scopre nell’appartamento orribili tracce dell’ex-inquilina e finisce progressivamente in un tunnel di follia che lo conduce al totale sdoppiamento di personalità nella ragazza. Tratto dal romanzo “Le locataire chimerique” di Roland Topor, è il decimo lavoro di Polanski e sicuramente il più kafkiano, grazie alle atmosfere claustrofobiche e grottesche che inchiodano lo spettatore a questo condominio popolato di personaggi che sembrano parenti dei vicini di casa di Rosemary Woodhouse. Una dramma gotico e psicologico sulla diversità e sulla figura dello straniero, interpretato da un Polanski dostoevskijano e interpretabile come metafora e riflessione sull’artista, in bilico tra follia e razionalità estrema e ossessionato da un pubblico volgare e gretto. Come in Rosemary’s baby, anche qui il nemico è rappresentato dalla società, il vicinato che complotta contro il protagonista con fare massonico. E Trelkosky, smarrito come un personaggio di Kafka, finisce per diventare una pedina ingabbiata in un sinistro meccanismo più grande di lui, inesorabilmente condannato a un destino beffardo dal quale non riesce a svincolarsi. Il terrore quotidiano e fantastico e i simbolismi tipici di Polanski si fanno sempre più estremi con lo scorrere del film: dagli inquilini nel bagno ai macabri ritrovamenti all’interno delle pareti (ossessione polanskiana fin dai tempi di Repulsion) si arriva all’inesorabile sdoppiamento di personalità – anche nell’abbigliamento – in Simon Chule. Fotografato dall’operatore Sven Nykvist, capace di prospettive inusuali ed estreme, L’inquilino del terzo piano è uno dei migliori incubi prodotti dalla mente disturbata del regista polacco.
Afflitto da un tormentoso rapporto edipico con una madre megera e possessiva, Mario Cioni cerca inutilmente di liberarsene, affidandosi alle speranze di una rivoluzione guidata dal segretario del PCI Enrico Berlinguer. Libera rielaborazione di un monologo teatrale (Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, 1975), è il duplice esordio nel cinema di Bertolucci Jr. e Benigni. Casto nelle immagini e di torrentizia scurrilità genitale nei dialoghi, è un film anomalo fondato su diverse contraddizioni: stridente coabitazione di comico e drammatico; enormità delle provocazioni verbali e tenerezza delicata a livello figurativo; un protagonista che è, insieme, moderno e arcaico; miscuglio di intelligenza campagnola e estri surrealisti. Uscì troppo presto e fu un insuccesso.
Una mattina del marzo 1937 a Palermo un uomo commette tre delitti. Freddamente uccide il superiore che lo ha licenziato, il sostituto e per finire sua moglie. Si fa trovare a casa e si farebbe tranquillamente condannare a morte, siamo in pieno fascismo, se non fosse che il giudice Vito Di Francesco decide di scavare a fondo nella vicenda per trovare attenuanti. Dal romanzo di Leonardo Sciascia, il film è un lucido resoconto sul potere, sulla giustizia e sulla passione. Ha vinto il David di Donatello, la Grolla d’Oro per la regia, l’Oscar europeo e una candidatura a quello hollywoodiano. Superba l’interpretazione di Volonté e ottima quella dell’emergente Fantastichini.
Azur ha gli occhi azzurri, Asmar ce li ha neri come la notte. Il primo è figlio di un nobile gelido, il secondo di un’amorevole balia, che cresce i pargoli come fratelli, raccontando a entrambi, ogni sera, alle porte del sonno, la leggenda della fata dei Jinns, che attende, da una prigione nascosta, il giovane che la libererà. Ma un giorno il padre di Azur lo manda lontano da casa per studiare e scaccia dalla sua dimora francese la nutrice e il piccolo Asmar. Solo una volta adulto, Azur si imbarcherà in direzione dell’Oriente per ritrovare i suoi cari e liberare la fata dei Jinns.
Storia di Zoolander, un modello che ha avuto grande successo e che adesso è in fase calante per colpa di un concorrente più giovane. Cerca allora di dare un nuovo senso alla propria vita, ma non è sorretto dalla necessaria personalità, soprattutto dalla necessaria cultura. Nel frattempo assistiamo alle stranezze del mondo della moda, dove tutto è superficiale, esagerato eccetera. Tutte cose che aveva già raccontato, pentendosene, Robert Altman. Stiller, nel doppio ruolo di attore e regista, non riesce a fornire una ragione per ricordare il film.
Protagonista della dolorosa vicenda è un ragazzo di sedici anni, originario della Bielorussia, che vive la seconda guerra mondiale con lo strazio di un’adolescenza sprecata e la ferma convinzione che chi uccide deve pagare, perché nessuno ha il diritto di togliere la vita a un altro essere umano. Buon film russo girato sul nascere della Perestrojka.
Un giovanotto apre una porta proibita e si trova nel gorgo di un mondo bizzarro (violenza, droga, sadomasochismo, depravazione) dove ciascuno è succubo di qualcun altro. Il regno del Male? Torbido, insolito, affascinante film che conferma la predilezione visionaria di Lynch per l’immaginario perverso, l’anormale e il mostruoso che si cela sotto la superficie dell’America odierna. Memorabile Hopper, ma Stockwell non gli è da meno.
Il proprietario di una fabbrica di dolci bandisce un concorso: i cinque bambini vincitori potranno entrare nella misteriosa fabbrica e scoprirne i segreti. Adattamento cinematografico da un delizioso libro (1964) di Roald Dahl (che ha scritto anche la sceneggiatura). Commedia fantastica piena di magia e intelligenza, anche se non molto originale. Bravo Wilder. Remake di Burton con Depp nel 2005.
Barone del bestiame, invalido, cerca di espellere dalla sua valle i piccoli e indifesi agricoltori, mentre la sua ambiziosa moglie lo tradisce con suo fratello. Lo contrasta un reduce della guerra civile. Bella compagnia d’attori per un dramma d’azione che fa pensare a un film gangster travestito da western. Qualche buona sequenza di movimento non basta a riscattare la convenzionalità dell’insieme.
Liberamente tratto dal romanzo A nome tuo (2011) di Mauro Covacich, scritto dalla Golino con Francesca Marciano e Valia Santella. Protagonista assoluta di questo film al femminile è l’Irene della Trinca che a pagamento aiuta a morire con un suicidio assistito i malati terminali che vogliono abbreviare la loro agonia e tuttavia, per valutare la fermezza della loro decisione, cerca di dissuaderli sino all’ultimo. Un giorno, a chiedere i suoi servizi, è un ingegnere fiorentino in ottima salute che vuole morire perché afflitto da una immedicabile noia esistenziale. Irene si ribella, ma tra i due lentamente nasce un rapporto di stima e affetto che cambia entrambi in meglio. Un Cecchi memorabile, una Trinca in gran forma.
Isidoro, per i familiari Easy, ha 35 anni ed è stato una promessa dell’automobilismo competitivo fino a quando non ha cominciato a prendere peso. Ora vive con la madre e si imbottisce di antidepressivi. Fino al giorno in cui il fratello gli chiede un favore speciale: un operaio ucraino è morto sul lavoro e la salma va riportata in Ucraina senza troppe formalità. Easy può così tornare a guidare…un carro funebre.
Quattro amici di Atlanta (Georgia) decidono di passare un weekend discendendo in canoa il fiume Chattooga che attraversa la valle della Cahula, prima che il paesaggio sia sconvolto dalla costruzione di una diga. La gita si trasforma in un incubo di violenza e di morte. Tratto da un romanzo di James Dickey che l’ha sceneggiato e che compare nel film nella piccola parte di uno sceriffo, il film svolge i temi del confronto tra natura e civiltà, tra mondo urbano e mondo rurale e della necessità della violenza individuale a contatto con la natura selvaggia. Quello dei quattro cittadini è un viaggio negli inferi dell’inconscio, del pre-storico, del mito in un contesto di dolore e di morte. Tra le diverse scene memorabili da citare almeno il duetto di banjo e chitarra all’inizio. Ottima fotografia di V. Zsigmond.
Doveva essere un concerto dedicato all’amore dei vent’anni. Purtroppo alcuni suonatori, tra cui Renzo Rossellini, non sapevano leggere la musica. Si salvano in due, Truffaut e Wajda.
“Antoine e Colette” di Truffaut: Episodio Girato a Parigi, l’episodio diretto da François Truffaut costituisce il secondo capitolo del ciclo dedicato ad Antoine Doinel, interpretato da Jean-Pierre Léaud, dopo I 400 colpi. Antoine è innamorato di Colette, una ragazza parigina di buona famiglia, che però non è interessata al suo amore, nel corso dell’episodio, finalmente rivede il suo amico Renè che non vedeva da tanto tempo.
Nota bene: La versione 1080p è del solo episodio “Antoine e Colette” di Truffaut. I subita li ho tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Antoine Doinel ha pubblicato il libro “Insalate d’amore” e ha una relazione con Sabine, commessa in un negozio di dischi. Intanto deve occuparsi del divorzio dalla moglie Christine. Accompagnando il figlio alla stazione incontra coleì che aveva corteggiato da giovane, Colette. Decide di saltare sul suo treno senza biglietto e di raccontarle le sue vicende amorose. Colette però avverte quanto Antoine sia autoreferenziale e lo allontana da sé il che lo spinge a tirare il freno a mano e scendere precipitosamente dalla vettura. Incontrerà successivamente colui che era stato un amante della madre di cui finalmente visiterà la tomba. Intanto Sabine ha deciso di chiudere con lui. Il ciclo di Antoine Doinel giunge alla sua conclusione grazie a una suggestione che a Truffaut giunge da lontano: “Un giorno Henning Carslen mi raccontò una cosa interessante (…) Carlsen aveva ereditato un cinema che Carl Theodor Dreyer aveva gestito fino alla morte, il Dagmar Theater, a Copenaghen (…) e aveva proiettato tutto Doinel sotto forma di ciclo (…) C’erano giovani che avevano guardato tutto il giorno Doinel crescere, amare e invecchiare: è stato quando ho sentito questo racconto che mi è venuta voglia di fare un ultimo Doinel”. Truffaut non vuole ‘chiudere’ in modo banale il percorso e non rinuncia a pensare al pubblico. Quindi si impegna in una rivisitazione dei film precedenti senza però abbandonare a se stesso l’eventuale spettatore che non li ricordasse o che addirittura non li avesse visti, L’alter ego di Truffaut resta identico a se stesso. Invecchia ma sembra fare fatica a maturare sul piano dei sentimenti.
L’amore fugge e Antoine si identifica in questa fuga. Ma Truffaut va oltre tarando l’obiettivo della macchina da presa su due soggetti. Da un lato, molto più personale, su un rapporto molto difficile di Antoine/François con la figura materna grazie al personaggio del signor Lucien che lo accompagna al cimitero di Montmartre (dove oggi il regista è sepolto). Questa visita fa da cerniera con l’altro soggetto: il rapporto tra narrazione, invenzione e realtà. Perché così come la foto strappata e ricomposta di una donna alla fine risulta non solo il frutto di una fertile fantasia dello scrittore Doinel, nel cimitero c’è la tomba di Margherita Gauthier, la Signora delle camelie che ispirò più di un autore. Truffaut chiude il cerchio. Non solo su Antoine Doinel ma sul rapporto tra la creazione artistica e la realtà.
Pierre Lachenay è direttore di una rivista letteraria e gode di una certa notorietà. Ha una bella moglie, Franca, e una bambina. Un giorno si reca a Lisbona per tenere una conferenza e conosce Nicole, una giovane hostess. Tra i due inizia in breve tempo una relazione inframezzata dai reciproci impegni. Invitato a Reims per presentare un film di Yves Allegret su André Gide, Pierre porta con sé Nicole ma è poi costretto a starle lontano non potendo rendere palese la sua presenza. Sarà però proprio questo viaggio a far scoprire a sua moglie che lui le mente e questo spingerà i due a decidere di separarsi. Ma la vicenda avrà ben altro epilogo. Truffaut scrive con Jean-Louis Richard questo film in attesa di poter realizzare Fahrenheit 451 ma ciò non significa che ci troviamo di fronte ad un’opera intermedia. Anche se la critica lo trattò severamente in occasione della sua proiezione al Festival di Cannes La peau douce (dimentichiamo l’assurdo e del tutto non corrispondente titolo datogli dalla distribuzione italiana) è un’opera importante all’interno della filmografia del regista. Truffaut decide di continuare a sperimentare sul cinema e, al contempo, su se stesso. Sul cinema perché dopo aver raccontato la vitalità del triangolo amoroso in Jules e Jim qui ribalta la situazione.Non solo per quanto riguarda il sesso dei protagonisti (là due uomini e una donna, qui due donne e un uomo) ma anche e soprattutto per il segno decisamente opposto che viene dato alla materia. Rispetto agli stereotipi narrativi dell’epoca (e non solo) la moglie si rivela più interessante dell’amante e l’uomo è di una mediocrità imbarazzante anche per se stesso. Qui Truffaut si prende anche gioco degli intellettuali del suo tempo: Lachenay è noto (è stato in televisione) sa tenere dotte conferenze su Balzac e Gide, dirige una rivista letteraria importante. Avrebbe potuto essere un burocrate, un funzionario governativo con quel suo modo di vestire tanto anonimo quanto abitudinario. Invece no. L’ambito in cui il regista decide di collocarlo è quello dello sfoggio di una cultura che sicuramente (almeno in questo caso) non accresce la qualità dell’esperienza di vita e non rende migliori. La sequenza del viaggio a Reims rende con chirurgica abilità la dimensione di una personalità che in pubblico riesce ad occultare il proprio grigiore esistenziale. L’idea che costituisce la fonte d’ispirazione per Truffaut è quella di due persone viste baciarsi in un taxi (mentre il finale si riferisce a un fatto di cronaca che lo aveva colpito per la sua dinamica).. La scena del taxi nel film non c’è così come viene rapidamente abbandonata l’intenzione di trattare, in fase di sceneggiatura, tutti e tre i personaggi allo stesso modo, senza giudicarli. Il giudizio invece c’è ed è severo in un’opera in cui la dimensione temporale si fa stile narrativo e dichiarazione di stati d’animo. Si pensi, a puro titolo d’esempio, alla salita in ascensore in hotel con la presenza di Nicole e alla discesa dopo che la donna ne è uscita. Per quanto riguarda invece la dimensione di vita personale di Truffaut va tenuto presente che tutte le scene di casa Lachenay sono state girate non in studio ma nell’appartamento che all’epoca il regista abitava con la moglie Madeleine e le due figlie. Alla fine delle riprese Truffaut scrive ad Helen Scott: “Madeleine e io ci separiamo. Girare La peau douce è stato duro, e adesso, a causa della storia stessa che il film racconta ho orrore dell’ipocrisia coniugale: è un momento in cui sono davvero esasperato”. Nel corso delle riprese era iniziata una relazione con Françoise Dorleac. Questo non è gossip. Per Truffaut era l’inestricabile rapporto tra la vita e il cinema.
Un film di François Truffaut. Con Nicole Felix, Chantal Mercier, Virginie Thevenet, Jean-François Stévenin, Virgine Thevenet Titolo originale L’argent de poche. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 104 min. – Francia 1976. MYMONETRO Gli anni in tasca valutazione media: 3,42 su 13 recensioni di critica, pubblico e dizionari. È la storia di alcuni bambini “irregolari”. L’ambiente è quello di un collegio in Alvernia, dove si svolgono i piccoli drammi infantili. La vicenda centrale è quella di Julien, un piccolo gitano, che ha una vita familiare infelicissima.
Da Gli anni della Fenice (1953) di Ray Bradbury: in una società del Medioevo prossimo venturo, condannata all’ignoranza da un potere dispotico che condanna i libri al rogo, il pompiere incendiario Montag incontra Clarissa che ama la lettura, comincia a leggere per curiosità e non smette più, diventando un fuorilegge. Drammaturgicamente fiacco, poco convincente come ambientazione, fredda meditazione sulla passione del fuoco e sulla contrapposizione tra gli uomini schiavi del Moloch televisivo e i liberi uomini-libro, è il film poco riuscito di un F. Truffaut che cerca di forzare i propri limiti, ma, comunque, un commosso omaggio ai libri, alla letteratura, al potere della scrittura
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