Il barone Frankenstein, tormentato dall’idea di aver inventato un mostro, decide di partire con la moglie, ma il dr. Pretorius lo costringe a un altro esperimento: creare un essere di sesso femminile. Quattro anni dopo il celebre Frankenstein (1931), la Universal decise di dargli un seguito. Il risultato è ottimo, secondo molti, persino migliore del precedente per l’armonia tra i vari contributi: una sceneggiatura che accentua gli aspetti umani e patetici del “mostro”; la raffinata messinscena di Whale; la bellezza dei trucchi di Jack Pierce; gli effetti speciali di John Fulton; la bravura degli interpreti. Circola un’edizione di 75′ senza il prologo con Byron e Mary Shelley e la scena in cui il mostro uccide il borgomastro. Rifatto 50 anni dopo come La sposa promessa . Seguito da Il figlio di Frankenstein .
Dal romanzo Frankenstein o il Prometeo moderno (1818), di Mary Wollstonecraft Shelley e da un adattamento teatrale (1927) di Peggy Webling. Nel suo laboratorio tra le montagne svizzere, all’inizio dell’Ottocento, il medico barone Henry Frankenstein riesce a creare un essere vivente mettendo insieme pezzi di cadaveri umani, ma la “creatura”, sobillata da un servo, si ribella e compie involontariamente alcuni crimini. Braccato dagli abitanti del villaggio, si rifugia in un mulino al quale la folla dà fuoco. Prodotto da Carl Laemmle Jr. per la Universal, il film cancella quasi completamente le tracce della mediazione teatrale grazie alla sceneggiatura e soprattutto alla regia inventiva e figurativamente raffinata dell’inglese Whale. Oltre a lasciare il suo segno sul copione (è sua l’idea del mulino), scelse il compatriota Karloff per la parte del mostro e ne affidò il trucco a Jack Pierce. Il suo modo fluido di far muovere la cinepresa (fotografia di Arthur Edeson), insolito nel 1931, che valorizza le scenografie e i comportamenti dei personaggi e crea un’atmosfera di morbosa suggestione, impressionò il pubblico e sottrasse il film all’usura del tempo. Numerose le sequenze da citare: i funerali d’apertura; la nascita della “creatura” con il suo motivo ascensionale; l’incontro con la bambina; la folla dei contadini con le fiaccole; l’incendio conclusivo. Come nel romanzo della Shelley, la colpa (il peccato) di Frankenstein non è di aver sfidato Dio nel creare la vita, ma nell’emularlo e nel competere con lui come padrone assoluto della “creatura”. Lo dimostra la delicata sequenza in cui nella camera dove il suo creatore l’ha rinchiuso penetra un raggio di sole, accolto dal “mostro” con un mezzo sorriso. Immediatamente Frankenstein gli toglie la luce ossia, simbolicamente, ogni conoscenza che non venga da lui. Il vero crimine di Frankenstein è contro la società. Karloff apparve in altri 4 film del ciclo, il primo dei quali (e il migliore) è La moglie di Frankenstein (1935) diretto da Whale, mentre in House of Frankenstein (1944) e in Frankenstein 70 (1958) fa la parte del barone. Nel 1987 fu restaurato in un’edizione di qualche minuto più lunga che fu distribuito negli USA in home video.
Un reporter scopre che un rappresentante del movimento pacifista inglese non è morto assassinato come qualcuno tenta di far credere, ma è prigioniero di una nazione che vuole carpigli preziosi segreti. Il capo dei rapitori è un importante personaggio britannico, della cui figlia il nostro eroe è innamorato. Allo scoppio della guerra, il traditore muore durante un incendio aereo che coinvolge anche la figlia e il giornalista. I due giovani, però, si salvano.
La timida seconda moglie di Maxim de Winter, facoltoso gentiluomo della Cornovaglia, è ossessionata nella dimora di Manderley dall’immagine della prima moglie defunta. Dal romanzo (1938) di Daphne du Maurier. Dopo Intrigo internazionale il più lungo film di Hitchcock – qui al suo esordio a Hollywood – che gli valse 8 nomination e 2 premi Oscar (miglior film, fotografia di G. Barnes). Soprattutto nella 1ª parte una romantica, angosciosa, disperata mystery story. Nel racconto gotico è una vetta.
Mississippi, 1964. In una piccola cittadina a dieci miglia da Memphis (Jessub), tre attivisti per i diritti sociali dei neri vengono brutalmente uccisi. Gli agenti dell’Fbi Anderson e Ward decidono di investigare sulla loro scomparsa. Nel corso delle indagini, tuttavia, devono fare i conti con la polizia locale, responsabile dell’accaduto e legata segretamente al Ku Klux Klan. Malgrado gli sforzi per ottenere giustizia, i due assistono a un crescendo di odio e violenza nei confronti della comunità di colore del posto.
Enrico Tudor, re d’Inghilterra nella prima metà del secolo sedicesimo. Qui c’è solo la storia privata, i rapporti con le sue molte mogli, da Caterina d’Aragona (che sposò dopo che era rimasta vedova del fratello) dalla quale volle divorziare per sposare Anna Bolena, da Jane Seymour a Caterina Howard a Anna di Clèves fino all’ultima Caterina Parr, che riuscirà a sopravvivere al terribile consorte.
Una ventina di ragazzini inglesi dai 7 ai 14 anni, sopravvissuti a un incidente aereo, restano abbandonati a sé stessi su un’isola tropicale. Si organizzano, eleggono come capo il saggio e volitivo Ralph, ma presto la comunità si spacca in due e prende il sopravvento il gruppo dei cacciatori guidati da Jack, che regredisce allo stato tribale e si dedica al culto di un totem, il signore delle mosche. Tratto dal romanzo (1954) di William Golding, adattato dal noto regista teatrale al suo 3° film, girato a Portorico, è un apologo pessimista sulla regressione che si può interpretare con Freud, ma anche con Lévi-Strauss. Pur avendo, specialmente nella 2ª parte, momenti suggestivi, non riesce a diventare – com’è nel romanzo – quella favola atroce che P. Brook voleva. Rifatto nel 1990.
Il ricchissimo filone di film fantascientifici prodotti ad Hollywood (ma non solo, si pensi ad esempio al nipponico Godzilla) negli anni ’50 viene generalmente in una ristretta cerchia di capolavori del genere, come Ultimatum alla Terra e Il mostro della laguna nera da una parte, e dall’altra una infinità di piccole produzioni dalla qualità abbastanza scadente, realizzate sfruttando i set precedentemente attrezzati per film più importanti. In realtà, se andiamo a scavare bene a fondo nelle opere uscite al cinema in quel periodo, ci accorgeremo che c’è anche una tendenza “di mezzo”, cioè alcune pellicole che, pur non potendo essere assolutamente considerate artisticamente di livello, si distinguono dalla massa anonima di spettacoloni ingenui per tutta una serie di motivi.
Un esempio classico è proprio Destinazione… Terra!, in cui il regista Jack Arnold, uno dei capisaldi del cinema dell’orrore e della fantascienza insieme a John Carpenter, James Whale e Wes Craven, per la prima volta si cimenta in una produzione di questo genere. L’indiscutibile abilità di Arnold conferisce al film caratteristiche di cui i suoi contemporanei improvvisati sono completamente sprovvisti: prima di tutto l’impeccabile regia, in grado di mostrare ogni elemento dell’inquadratura con una vividezza che sorprende e affascina. I contorni sono marcati ed evidenti, il panorama (il deserto dei western) è qui sfruttato con maestria, a dimostrazione di come un regista capace sia in grado di servirsi con successo anche di materiali di scarto e non propriamente legati al genere di riferimento. Grande trovata anche la soggettiva dagli occhi, anzi dall’occhio, dell’alieno, e superba è la sequenza in cui la creatura esce dalla miniera, rivelandosi in tutto il suo orribile aspetto, emergendo piano piano dalle ombre e materializzandosi come puro incubo visivo. Inoltre va segnalato che Arnold per primo nella storia si servì dell’espediente narrativo, poi reso celeberrimo da Don Siegel ne L’invasione degli ultracorpi, di far assumere agli extratterestri la forma degli uomini con cui erano entrati in contatto. In ogni caso, la sola regia non basterebbe ad elevare questo film una spanna al di sopra di molti suoi simili… la vera genialità di Arnold sta nell’importante riflessione etica che viene proposta, e che in parte ricalca, almeno nella concezione che il regista ha degli alieni, il film di Robert Wise, nel quale, proprio come in questo, gli esseri venuti dallo spazio erano dei “visitatori” e non degli “invasori”; inoltre sono dotati non solo di una tecnologia superiore alla nostra, ma anche di una più profonda capacità di relazionarsi con gli altri, di accettare la diversità e di convivere con essa. Ecco dunque che Arnold cala all’interno di un cinema troppo spesso di mero intrattenimento una discussione intensa che si tramuta anche in denuncia dell’ottusità umana, della sbagliata paura dell’uomo nei confronti dell’ignoto, e del suo impulso istintivo a distruggere tutto ciò che non si può capire e dominare, anzichè cercare di comprenderlo. Gli alieni del film cercherebbero il contatto, ma sono consapevoli che l’umanità non è ancora pronta per un passo del genere. Il finale è un magnifico invito a superare tutti i pregiudizi razziali della nostra epoca, a liberarci dall’infondato e autodistruttivo timore del “diverso”, nella speranza che un giorno sia possibile il ritorno sul pianeta di una specie così superiore che potrà portare soltanto benefici agli uomini. Dunque il film esula dal semplice argomento narrativo per mostrarsi come una preghiera universale di tolleranza, amore e rispetto nei confronti degli altri, e questo è indice di grandezza e valore artistico.
Sarah, adolescente sognatrice, una sera in cui rimane sola a casa con il fratellino e innervosita dai suoi pianti, invoca il re degli gnomi Jareth, pregandolo di portarlo via. Toby scompare. Sarah, pentita, corre a riprenderselo affrontando ogni sorta di pericoli: nani, paludi, porte magiche. Quando rivede finalmente Toby… si risveglia.
Dean Corso, esperto di libri antichi, è assunto dal collezionista Boris Balkan, studioso di occultismo che possiede una copia del volume Le nove porte del regno delle tenebre (1666), scampata ai roghi dell’Inquisizione. Ne esistono altre due e sospetta che una delle tre sia falsa. Quale? Il viaggio-inchiesta che porta Corso da New York in Europa è funestato da segni inquietanti e morti misteriose. Dal romanzo El Club Dumas (1993) di Arturo Pérez-Reverte, adattato con Enrique Urbizu e John Brownjohn, è derivato un film polanskiano a 18 carati. Storia di una investigazione (forse l’unica sullo schermo) imperniata su un libro e impregnata di soprannaturale, è un film laico sulla falsità delle apparenze e delle credenze che non si preoccupa più di tanto di prendere le distanze dalla sua materia perché “preferisce la reticenza, l’affidarsi all’intelligenza dello sguardo più che alla visione” (G. Cremonini). Tolto il debole finale, la costruzione narrativa è ingegnosa.
Si apre con un ingorgo a Los Angeles che si trasforma in un delizioso balletto coreograficamente perfetto nel suo disordine apparente. Lei aspira a far l’attrice e serve cappuccini al bar. Lui ama appassionatamente il jazz e sogna di aprire un locale tutto suo. Si amano e poi si lasciano. Ognuno per la sua strada. E realizzano i loro sogni. Musical eccentrico, originale e classico, romantico con una vena malinconica, mai triste. La Stone, che si aggiudica a Venezia la Coppa Volpi e l’Oscar come miglior attrice, e Gosling non sono ballerini, ma compensano con l’interpretazione, e si “inventano” ballerini: lui, con la mano in tasca, è strepitoso. La storia – come in un musical d’altri tempi che si rispetti – è esilina, ma le musiche (Justin Hurwitz), l’ambientazione (scenografie di David Wasco), i costumi (Mary Zophres), le coreografie, la versione musicale del “sognoamericano” senza lieta fine sentimentale (forse), e le numerose citazioni valgono la pena. Chi non ama i musical stia a casa. Oscar anche alla regia, alle scenografie, alla colonna sonora e alla canzone (su 14 candidature), 7 Golden Globe (su 7 candidature).
Terrorista dell’IRA, tormentato dal rimorso per la morte di un soldato di colore inglese che teneva in ostaggio, rinuncia alla lotta e va a cercare la donna del defunto. Sorpresa. Praticamente il film è diviso in due parti e la seconda è quella che intriga, spiazza, sorprende, seduce. In sapiente equilibrio tra cinema d’azione e racconto psicologico, affidato alla rara arte di saper fare attendere lo spettatore, recitato benissimo, il film è un’originale esplorazione dell’Eros e una riflessione non scontata sulla violenza e il fanatismo nella lotta politica. Oscar a Jordan per la sceneggiatura e altre 5 candidature.
Due vecchi ex partigiani piemontesi ritrovano in un ospizio, costretto su una sedia a rotelle, il capitano delle brigate nere repubblichine che torturò e massacrò i loro compagni. Che faranno? Anconetano di nascita (1966) e torinese di adozione, l’esordiente Gaglianone – anche sceneggiatore con Giaime Alonge – sfiora soltanto il tema della vendetta e si concentra su quello del tempo e della memoria, del passato che per Alberto (Biei) s’è trasformato in ossessione, mentre l’amico Natalino (Franzo) ne ha preso le distanze con malinconica serenità. Nel mescolare supporti (video, 16 mm e Super8) e vari linguaggi (fiction, flashback, documentario, intervista) il regista non ha sempre la mano felice; vezzi e scorie da dilettante non mancano. Apprezzabili la sincerità e la rozza semplicità di fondo.
Grga e Zarije sono amici da almeno trent’anni. Matko, il figlio di Zarije, progetta di rubare un carico di carburante per contrabbandarlo. S’affida allora a Grga e ,con la scusa che suo padre, Zarije è morto, gli prende dei soldi, con i quali può portare a termine l’operazione. Nell’affare si mette in mezzo anche il criminale cocainomane Dadan; al momento del furto al convoglio, però, Dadan addormenta Matko e prende per sé il carico. Che al suo risveglio apprende da Dadan che il colpo è fallito; non potendo però restituire i soldi prestati al bandito è costretto ad accettare come condizione di dover far sposare il suo amatissimo figlio Zare con sua sorella Afrodita, detta Bubamara (ovvero coccinella) per la sua bassezza.
Dai libri Lay This Laurel di Lincoln Kirstein, One Gallant Rush di Peter Burchard e dalle lettere di Robert Gould Shaw. È la storia – una di quelle che i libri di storia e Hollywood non avevano mai raccontato – del giovane colonnello Robert Gould Shaw e del 54° reggimento di fanteria, costituito esclusivamente – ufficiali a parte – da soldati di colore, in gran parte ex schiavi fuggiti dal Sud, che nel 1863 fu mandato a un inutile assalto al Fort Wagner sull’isola Morris (South Carolina). Vi persero la vita più di mille giubbe blu nere. Pochi altri film hanno messo in immagini con altrettanta efficacia la locuzione metaforica “carne da cannone”, ma al di là degli accenti epici, dei conflitti psicologici e dei rimandi all’attualità sociale, questo 2° film di Zwick, sceneggiato da Kevin Jarre, ha un’intensa dimensione religiosa. 3 Oscar: miglior attore non protagonista (Washington), fotografia (Freddie Francis) e suono.
Ayub Khan-Din sceneggia una sua commedia di successo sul multietnismo nelle periferie britanniche e O’Donnell dirige un film eccezionale, ironico, trascinante: un vero fenomeno. Om Puri è il padre anglicizzato ma non fino al punto da non pretendere dai suoi figli un matrimonio tradizionale. Basset è la moglie british che si scontra con lui. I figli sono più inglesi di un nativo. Il melting pot produce un vero capolavoro cinematografico.
Roma, 2012. Francesca è un’esodata, ovvero una dei 390mila lavoratori che la riforma Fornero ha lasciato a casa in attesa di un’età pensionabile innalzata all’ultimo minuto, creando un limbo in cui persone che avevano lavorato per tutta la vita si sono viste prive di un reddito e di un meritato riposo. La situazione di Francesca è particolarmente delicata perché vive sola con una nipote 16enne che non capisce le difficoltà economiche in cui è precipitata la nonna e gliene addossa interamente la colpa. Quando Francesca si ritrova a chiedere l’elemosina sotto i portici di Piazza Repubblica, con il suo abbigliamento da signora bene e il suo sorriso da persona onesta, le reazioni della gente verso di lei sono le più disparate, e la donna fa esperienza tanto della vergogna della propria condizione quanto della natura ambivalente degli altri davanti a chi ha bisogno.
Giovane psichiatra (Ezralow) deve fare una perizia sulla coatta Maddalena (Dalle) che ha ucciso il suo presunto violentatore e sostiene di essere una strega nata nel 1630, da sempre in attesa di un uomo che la deflori. Il coniugato psichiatra ne è attratto e nelle sue fantasticherie partecipa a visioni secentesche di sabba, torture, roghi. Film laico sulla stregoneria, poco romantico e ancor meno mistico, fondato sulla visione: le immagini vi contano più delle parole. Alle seconde è affidata la dimensione razionale e discorsiva (diurna), alle prime quella emotiva e fantastica (notturna), ma quanto è feconda la contraddizione dialettica tra le due componenti? Domina la presenza simbolica dell’acqua, anche come parte femminile della libido. Scritto dal regista con Francesca Pirani. Fotografia di G. Lanci, musiche di Carlo Crivelli, coreografie di Raffaella Rossellini.
Dopo decenni di luoghi comuni (Cabiria come antenato ideologico del fascismo, il suo regista come “inventore” del carrello, le sue architetture “studiate” da Griffith durante la lavorazione di Intolerance, le acrobazie verbali di D’Annunzio), l’opus magnum di Pastrone è finalmente oggetto di una meritata revisione critica. Il disegno e la struttura del film emergono soprattutto osservando la meticolosa concatenazione delle azioni parallele all’interno dell’inquadratura e la lussureggiante ricchezza di dettaglio nelle scene d’interni, esaltate da un impiego del colore (tintura e viraggio) efficace negli effetti quanto misurato nelle variazioni. Ecco una preziosa occasione per paragonare la più recente ricostruzione della versione 1914 del film con gli affascinanti scarti di lavorazione presentati al Ridotto del Verdi durante le Giornate.
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