L’ex detective Takakura insegna psicologia criminale all’università. Un vecchio collega gli chiede una consulenza sul caso ancora irrisolto di una famiglia scomparsa nel nulla anni prima. Takakura nota delle strane similitudini tra quel caso e il suo presente con un vicino di casa strambo e decide di indagare. Il titolo originale – letteralmente Pauroso: il falso vicino di casa – dice più di quello internazionale. Dal romanzo omonimo di Maekawa (2014), Kurosawa non costruisce un horror tradizionale, con escalation emotiva e rivelazione finale a effetto, ma punta invece tutto su uno stile registico ritrovato – quello di Cure (1997) e Kairo (2001) – su una fotografia pulita e su un’atmosfera straniante, sul lento incedere del ritmo filmico. Molto merito all’attore Teruyuki Kagawa, già visto nella serie TV Shokuzai (2012) dello stesso Kurosawa.
L’americano Mr. West, presidente dell’YMCA, visita l’Unione Sovietica con il cowboy Jeddy come guardia del corpo. A Mosca viene sequestrato da una banda di ex nobili che cercano di truffarlo finché arrivano i veri bolscevichi a salvarlo. Commedia ironica in cui il cinema americano, codificato in generi (commedia, western, ecc.), è parodiato e, insieme, esaltato. Non appartiene a nessun genere, ma ne attraversa molti con una libertà di sperimentazione che ne fa uno dei primi esempi, e tra i più briosi e inventivi, di cinema sul cinema senza trascurare mai, in cadenze pungentemente satiriche, il discorso politico. Nel suo accanito rifiuto del naturalismo e dell'”illusione di realtà” è il frutto di un momento storico in cui l’avanguardia era ancora liberamente praticata.
A five-person team of gold prospectors in the Yukon has just begun to enjoy great success when one of the members snaps, and suddenly kills two of the others. The two survivors, a husband and wife, subdue the killer but are then faced with an agonizing dilemma. With no chance of turning him over to the authorities for many weeks, they must decide whether to exact justice themselves or to risk trying to keep him restrained until they can return to civilization.
Nel mezzo del cammino della loro vita, due compagni di scuola s’incontrano dopo molti anni: Marek (Zarnecki) fa il ricercatore scientifico, reduce dagli USA e dall’URSS; Jan (Mislowicz) si è isolato con la moglie in una sperduta stazione meteorologica, rinunciando alla carriera universitaria e al successo. Film – il 1° di Zanussi – dove non accade assolutamente nulla, se non il confronto (ma non il conflitto) tra due persone, due visioni del mondo. L’autore non propende per nessuno dei due perché probabilmente sono due facce della stessa medaglia, cioè di sé stesso. Perciò è aperto a interpretazioni e definizioni plurime (film-saggio, film-dibattito, film-riflessione), paragonato a una composizione musicale da camera. Nella sua dimessa, quasi sciatta semplicità, è stilisticamente raffinato. Mislowicz non è un attore.
Nishida, uno studente di ingegneria, è costretto ad alloggiare in un decrepito caseggiato per risparmiare il più possibile. Situata nei pressi di una base militare americana, la casa è divisa in una decina di piccole stanze ed è abitata per lo più da prostitute, alcolizzati o famiglie di bassissima estrazione sociale; quasi nessuno riesce a pagare l’affitto e la proprietaria dell’immobile, un’avida cinquantenne, non vede l’ora di sfrattare gli inadempienti. L’occasione di cacciare gli inquilini si presenta quando un imprenditore è disposto ad rilevare la proprietà, demolire l’edificio e costruirci un bagno pubblico. Per liberare il caseggiato, la padrone si avvale dei servizi di Jo, un violento delinquente fidanzato con la cameriera Shizuko, innamorata di Nishida.
Un film di Masaki Kobayashi. Con Tatsuya Nakadai, Michiyo Aratama, Ineko Arima, Chikage Awashima, Keiji Sada, Sô Yamamura, Akira Ishihama Titolo originale Ningen no jôken I. Drammatico, b/n durata 208 min. – Giappone 1960. MYMONETRO Nessun amore è più grande – La condizione umana I valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Sommando le tre parti della trilogia di cui è composto, Ningen no Joken (La condizione umana) è il film più lungo di tutta la storia del cinema (579 minuti; cioè quasi 10 ore). È anche una grande opera il cui regista ha dichiarato: “Ho avuto durante la guerra le stesse esperienze del mio eroe Kaji. Ho voluto far rivivere il tragico destino degli uomini che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Kaji (Tatsuya Nakadai) è al tempo stesso oppressore e oppresso, e capisce che non può smettere d’esser oppressore senza diventare oppresso. Certo, ho voluto denunciare i delitti di guerra, ma anche mostrare come una società umana possa trasformarsi in un organismo inumano”. L’azione si svolge nella Manciuria “colonizzata” dai Giapponesi tra il 1943 e 1945. I. Kaji, ingegnere minerario, e sua moglie (Michiyo Aratama) si ribellano contro i maltrattamenti inflitti ad alcuni deportati cinesi: Kaji viene imprigionato, poi mobilitato. II. La guerra e la sconfitta del nord del paese. III. La disfatta nipponica e la vita in un campo di prigionia sovietico. Questo immenso affresco antibellico, pieno di rivolta umanitaria, non esita a denunciare nel modo più diretto gli orrori e le crudeltà della guerra. Autore impegnato, Kobayashi vi si rivela come uno dei maggiori registi giapponesi del dopoguerra.
Sommando le tre parti della trilogia di cui è composto, Ningen no Joken (La condizione umana) è il film più lungo di tutta la storia del cinema (579 minuti; cioè quasi 10 ore). È anche una grande opera il cui regista ha dichiarato: “Ho avuto durante la guerra le stesse esperienze del mio eroe Kaji. Ho voluto far rivivere il tragico destino degli uomini che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Kaji (Tatsuya Nakadai) è al tempo stesso oppressore e oppresso, e capisce che non può smettere d’esser oppressore senza diventare oppresso. Certo, ho voluto denunciare i delitti di guerra, ma anche mostrare come una società umana possa trasformarsi in un organismo inumano”. L’azione si svolge nella Manciuria “colonizzata” dai Giapponesi tra il 1943 e 1945. I. Kaji, ingegnere minerario, e sua moglie (Michiyo Aratama) si ribellano contro i maltrattamenti inflitti ad alcuni deportati cinesi: Kaji viene imprigionato, poi mobilitato. II. La guerra e la sconfitta del nord del paese. III. La disfatta nipponica e la vita in un campo di prigionia sovietico. Questo immenso affresco antibellico, pieno di rivolta umanitaria, non esita a denunciare nel modo più diretto gli orrori e le crudeltà della guerra. Autore impegnato, Kobayashi vi si rivela come uno dei maggiori registi giapponesi del dopoguerra.
Sommando le tre parti della trilogia di cui è composto, Ningen no Joken (La condizione umana) è il film più lungo di tutta la storia del cinema (579 minuti; cioè quasi 10 ore). È anche una grande opera il cui regista ha dichiarato: “Ho avuto durante la guerra le stesse esperienze del mio eroe Kaji. Ho voluto far rivivere il tragico destino degli uomini che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Kaji (Tatsuya Nakadai) è al tempo stesso oppressore e oppresso, e capisce che non può smettere d’esser oppressore senza diventare oppresso. Certo, ho voluto denunciare i delitti di guerra, ma anche mostrare come una società umana possa trasformarsi in un organismo inumano”. L’azione si svolge nella Manciuria “colonizzata” dai Giapponesi tra il 1943 e 1945. I. Kaji, ingegnere minerario, e sua moglie (Michiyo Aratama) si ribellano contro i maltrattamenti inflitti ad alcuni deportati cinesi: Kaji viene imprigionato, poi mobilitato. II. La guerra e la sconfitta del nord del paese. III. La disfatta nipponica e la vita in un campo di prigionia sovietico. Questo immenso affresco antibellico, pieno di rivolta umanitaria, non esita a denunciare nel modo più diretto gli orrori e le crudeltà della guerra. Autore impegnato, Kobayashi vi si rivela come uno dei maggiori registi giapponesi del dopoguerra.
Charlie è una ragazza di 17 anni. L’età degli amici, dei turbamenti, delle convinzioni, delle passioni. Sarah è la nuova arrivata. Bella, sfacciata, ha una storia alle spalle e un bel temperamento. Insomma, la star immediata.
Un film di Wong Kar-wai. Con Andy Lau, Jacky Cheung, Maggie Cheung Titolo originale Mongkok Carmen. Drammatico, durata 95 min. – Hong Kong 1988. MYMONETRO As Tears Go By valutazione media: 2,75 su 2 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Al suo primo film Wong Kar-wai non è ancora autore ma è già protagonista. As Tears Go By è un mix di stili contrastanti ma vibra di tutta la passione che solo il cinema di Hong Kong degli anni ’80 sapeva regalare. Sorta di remake sotto mentite spoglie del Mean Streets scorsesiano, è la storia di Wah, un gangster squattrinato, disilluso e per nulla ambizioso tentato dall’amore per una lontana cugina ma prigioniero di questioni d’onore e del bisogno di proteggere l’avventato Fly, dotato di una propensione rara per cacciarsi nei guai ad ogni occasione. Wong Kar-wai si mantiene nei limiti del cinema commerciale e di genere, con musiche ad effetto – colonna sonora comunque strepitosa, tra il jazz-rock di Teddy Robin Kwan e il remake di Take My Breath Away dei Berlin – e rispettando il canovaccio del noir con tutti i suoi cliché, ma è stilisticamente che reinventa il tutto. Luci al neon, step framing per sbalestrare lo sguardo durante le scene d’azione, inquadrature suggestive e figlie della nouvelle vague (alternate ad altre ancora molto grezze), ossia quelle che diverranno le stimmate di un autore memorabile e che in As Tears Go By si mescolano con effetto inebriante alla spensieratezza del cinema popolare.
Èun’ennesima versione del romanzo di Tolstoj sceneggiato oltre che dallo stesso Duvivier anche dal celebre commediografo Jean Anouilh. L’interpretazione di Vivien Leigh, diversissima da quella della Garbo, è efficacissima.
Un padre dispotico si intromette negli affari sentimentali della figlia e le impedisce di sposarsi. Male per lui, perché la ragazza si vendica mettendo sul lastrico il genitore. Questi, malgrado tutto, ammira il coraggio della figliola e accetta l’elemosina che gli fa, ma qualcun altro si rifà vivo. Sorpresa.
Nel 1916 due aviatori francesi, il proletario tenente Maréchal e l’aristocratico capitano de Boïeldieu vengono abbattuti dall’asso tedesco barone von Rauffenstein il quale prova un’immediata simpatia per De Boïeldieu. Trasferiti in un campo di concentramento militare i due sono sul punto di fuggire quando vengono trasferiti. Finiranno con il raggiungere un’antica fortezza comandata proprio da Von Rauffenstein. Renoir con questa sua opera raggiunge un enorme successo di pubblico e di critica anche se la sua presentazione alla Mostra di Venezia (nata nel 1932) suscitò un forte disappunto nel regime fascista che intervenne sulla giuria affinché non ricevesse il Leone d’oro (che andò a un altro film francese considerato innocuo: Carnet di ballo di Julien Duvivier). Ciò che dava fastidio era il suo dichiarato pacifismo universale in tempi in cui la seconda guerra mondiale non era ancora imminente ma il nazismo non nascondeva più le sue mire. In La grande illusione però è presente molto più di questo. Certamente il riconoscimento dell’altro al di là della razza e della nazionalità è il fil rouge che attraversa il film. Il legame sentimentale che avvicina Maréchal e la vedova di guerra tedesca Elsa ci parla di esseri umani e non di ‘nemici’. Così come non sono ‘nemici’ ma uomini dotati di un’etica le guardie che non spareranno ai due protagonisti ormai giunti in salvo ma ancora allo scoperto. Va al di là delle all’epoca ormai prossime leggi razziali la solidarietà che si instaura tra Maréchal e il compagno di fuga ebreo Rosenthal (il che gli procurò un duro attacco da parte di Céline in “Bagatelle per un massacro”). In questo film (che Renoir co-scrive e dirige sulla base di conversazioni con il maresciallo Pinsard che, nel corso del conflitto mondiale, gli aveva salvato la vita) il soggetto di base erano inizialmente i tentativi di evasione che avrebbero potuto dar luogo a un succedersi di elementi avventurosi. Non a caso una delle scene visivamente più riuscite è proprio quella di un’ evasione ma quello che rimane come elemento ancor più dirompente (anche se meno appariscente) è la lettura della guerra come rafforzamento delle differenze di classe. L’immediata sintonia che si instaura tra De Boïeldieu e Von Rauffenstein (e che travalica le loro opposte militanze) è dettata dall’appartenenza all’aristocrazia. Maréchal appartiene a un’altra condizione sociale e anche se il senso dell’onore del capitano lo spingerà al sacrificio in suo favore la distanza resterà intatta. Nessuna concessione quindi alla facile retorica da parte di Renoir ma una lucida, anche se emotivamente partecipe, analisi delle dinamiche soci-economiche che che continuano a far sentire il loro peso in ambito bellico. Ciò accade anche grazie alla partecipazione di Erich von Stoheim caduto in disgrazia ad Hollywood e qui perfetto nei rigidi panni del barone (un ruolo minore nella sceneggiatura originale e progressivamente ampliato proprio in seguito alla sua presenza).
New York, 1846, quartiere di Five Points.Una cruenta battaglia tra gangs sancisce il trionfo di William Cutting detto Billy the Butcher, capo dei nativi americani e la morte di Padre Vallon, protettore degli emigranti. Sedici anni dopo il figlio di questi, Amsterdam, esce dal riformatorio fermamente deciso a ingraziarsi l’assassino di suo padre per poi fare vendetta. Conosciuto Billy, Amsterdam ne viene in pratica adottato e arriva a salvargli la vita. Una volta scoperto e sfigurato, si risolverà a combattere apertamente contro di lui. Ma sono gli anni della Guerra Civile: l’ultimo scontro tra le gang sarà decisamente superato in violenza e ferocia dall’intervento delle truppe inviate a far rispettare la coscrizione obbligatoria. Gangs of New York è probabilmente il film più atteso dell’anno: per le traversie produttive, per il montaggio infinito, per il suo cast stellare. Il risultato, pur notevole, è inferiore alle attese. Si direbbe che Scorsese, per la prima volta alle prese con un kolossal, voglia approfittare dell’occasione per chiudere i conti con tutto il suo passato di innamorato del cinema. Ma lo fa nel modo più sbagliato, infilando a raffica citazioni e stilemi (da Griffith a Leone, da Ejzenstejn a Von Sternberg) che non si coagulano in racconto coerente. Resta una somma smisurata di pezzi di bravura intervallata da lunghi tempi morti, con un cast adeguato nei ruoli di contorno ma poco azzeccato per quelli principali (con la gigantesca eccezione di Daniel Day-Lewis) e incredibili movimenti di macchina contraddetti da clamorosi errori di montaggio. Ma se l’ambizione era quella di riproporre una seconda “Nascita della nazione” va largamente delusa. Più grande, in tutti i sensi, che realmente bello.
Gli anni d’oro dell’eccentrico miliardario Howard Hughes, industriale, produttore, regista, progettista e aviatore, ma ancora più celebre per i suoi amori per le dive più belle e famose dell’epoca.
Il detectivePhilip Marlowe indaga sulla scomparsa della donna di un energumeno e l’assassinio di un uomo, vittima di un ricatto. Le piste si incroceranno, e la soluzione, per Marlowe, sarà particolarmente amara.
Un anziano investigatore privato pieno di acciacchi scopre che esiste un nesso tra la misteriosa morte del suo ex socio e la scomparsa di un gatto. Imperniato su due attori di bravura straordinaria, è un insolito giallo, intelligente e ben costruito. Importante la coloritura delle figure minori in una ben dosata miscela di tenerezza e umorismo. Scritto dal regista.
La infelice storia di Gatsby, divenuto ricchissimo dopo la prima guerra mondiale e tormentato dall’amore per Daisy che non ha saputo aspettarlo e ha sposato un altro. Riesce a riconquistarla, ma il fato vuole che lui sacrifichi la vita per lei. Il celeberrimo romanzo (1925) di Francis Scott Fitzgerald in un adattamento di Francis Ford Coppola (il terzo, dopo quello muto del 1926 e quello del 1949) costoso, fastoso, scrupoloso, ma imbalsamato, specie negli inamidati personaggi principali. Oscar per i costumi (Theoni V. Aldredge) e per la colonna sonora (Nelson Riddle).
Nella primavera del 1922, il giovane Nick Carraway si trasferisce a Long Island, in una villetta che confina con la villa delle meraviglie di Gatsby, un misterioso milionario che è solito organizzare feste memorabili e del quale si dice di tutto ma si sa molto poco. Cugino della bella e sofisticata Daisy Buchanan, moglie di un ex campione di polo, Nick viene a conoscenza del passato intercorso tra Daisy e Gatsby e si presta ad ospitare un incontro tra i due, a cinque anni di distanza. Travolto dal clima ruggente dell’età del jazz, da fiumi di alcol e dalla tragedia di un amore impossibile, Nick si scoprirà testimone, complice e disgustato, del tramonto del sogno americano. Tra la versione del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, e la rilettura odierna firmata Baz Luhrmann, che invece carica l’impianto visivo fino quasi a soffocare la voce amara e toccante del romanzo di Scott Fitzgerald, è lecito sognare una giusta temperatura di trasposizione, che resta ancora ideale, e rinnova la sfida ai cineasti a venire, com’è nella natura dei grandi classici di fare. Non c’è dubbio, infatti, che nel libro di Fitzgerald ci sia un corpo che domanda di essere tradotto esattamente con il linguaggio del cinema e della musica: è quello che parla della trasformazione fisica del protagonista, dei costumi che indossa, dell’architettura che abita, degli straordinari eventi che ospita; dell’epoca che incarna. E non è tanto su questo fronte, come verrebbe da pensare pregiudizialmente, che il film di Luhrmann è ridondante: il regista australiano sa animare come pochi altri una festa cinematografica e qui lo conferma a più riprese, sulle note di un r’n’b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo inebriante che all’epoca giocava il jazz. Ma c’è anche un’anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di Luhrmann, che pecca in più riprese di un’eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, si compiace rovinosamente nel finale, e di fatto non trova una via altrettanto personale, se non quella di ripetere modi e caratteri di Moulin Rouge. Tobey Maguire, nei panni di Nick Carraway, sembra infatti ricalcare la figura dello scrivano tragico di Ewan McGregor, al punto che il regista inventa per lui una cornice gemella e superflua, mentre il Gatsby di Leonardo Di Caprio, straordinario nella performance silenziosa e nella restituzione della solitudine del sognatore e dell’ambizioso (anche in virtù dei ruoli già indossati che si porta appresso), subisce suo malgrado la sorte del film a cui dà il nome, perdendo mistero e fascino man mano che l’orologio scorre e tentando invano di elevare la tensione alzando la voce. D’altronde, insistendo sul tema del guardare e dell’essere guardati, è il regista stesso a fornire un’indicazione per la lettura del suo lavoro. Nick è un osservatore della vita, un voyeur, Gatsby ha la fama di essere una spia e vive per raggiungere quella luce verde al di là dell’acqua che guarda senza posa, i due si tengono sotto controllo dalle rispettive finestre, mentre un paio di giganteschi occhi maschili (simili a quelli di donna dipinti da Francis Cugat, che Fitzgerald volle come copertina) scruta come un dio pagano il distretto operaio dove i ricchi sostano per il tempo dei loro sporchi comodi. Luhrmann, cioè, denuncia per primo e ribadisce ad oltranza il carattere eminentemente visivo del proprio operato, invitando il pubblico a godere dei fuochi d’artificio, dello “spettacolo spettacolare”, e dissuadendolo dal “pretendere troppo”, come impudentemente osa invece fare Gatsby.
Primo e Secondo Pilaggi, fratelli italiani emigrati sulla costa del New Jersey gestiscono un ristorante sull’orlo del fallimento. I due, per risollevare la situazione, decidono di organizzare una sontuosa cena nel loro locale, alla quale invitare il famoso musicista Luis Prime. Gustosa commedia-gastronomica ambientata negli anni Cinquanta.
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